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La memoria rende liberi è il titolo del libro scritto da Liliana Segre con Enrico Mentana in cui viene narrata – come recita il sottotitolo – la “vita interrotta di una bambina nella Shoah”. La messa in atto di un programma ossessivamente organizzato di cancellazione di ogni differenza all’interno di una presunta comunità etnica ci appare oggi incomprensibile. L’Olocausto eccede i confini della nostra ragione dato che essa procede inevitabilmente attraverso il nesso causa-effetto. Com’è potuto accadere? Nella storia rinveniamo tracce, prodromi e cause ma qui l’effetto non è proporzionale alla causa, e ci troviamo di fronte all’angoscia dell’inspiegabile.
C’è però qualcosa che possiamo spiegarci e ritrovare dentro di noi, e si tratta dell’indifferenza. Dell’indifferenza ci parla Liliana Segre nell’intervista del 24 aprile 2019 al Corriere della Sera, quando descrive il processo di “depauperamento mentale di italiani e tedeschi” che rese lei bambina prima invisibile tra i suoi coetanei e i suoi concittadini, poi vittima della deportazione di massa e infine superstite scampata allo sterminio. L’indifferenza è dentro di noi, nella nostra tendenza umana e animale a sottrarci al pericolo, a non vedere la sofferenza patita dagli altri e l’ingiustizia di cui sono oggetto. L’indifferenza sembra salvarci ma ci rende pietra, materia inerte, ci impoverisce fino alla disumanità come scrive Liliana. Se l’Altro diviene invisibile e muore ai nostri occhi, moriamo anche noi come essere umani.
Il 27 gennaio è stato il Giorno della Memoria, una ricorrenza che dobbiamo comprendere e trasmettere ai più giovani come occasione di conoscenza, di riflessione e approfondimento sulla storia e sulla civiltà contemporanea, quindi su quanto avviene anche oggi nella società in cui viviamo. Ci colpisce l’onda montante dell’indifferenza che diviene semplificazione brutale della realtà e discorso d’odio – hate speech – nelle forme in cui imperversa sul web, in luoghi pubblici e privati, nella comunicazione scritta e orale, fatta di parole che sono in realtà azioni, poiché sono dirette a provocare umiliazione e dolore e minare l’identità e la stima di sé delle vittime. L’aggressività verbale diventa aggressività fisica, come ci testimoniano spesso le cronache di tv e giornali.
Sul contrasto all’hate speech l’attività di Amnesty International è stata tempestiva e importante. I diversi materiali di analisi e documentazione prodotti dall’associazione sono reperibili online. Una Task Force Hate Speech (TFHS) è stata costituita in Italia nel 2017 per prevenire e decostruire i discorsi violenti e aggressivi dilaganti nei social network, il cui bersaglio sono le categorie di persone più deboli e soggette a discriminazione. Sempre con la volontà di essere al fianco delle vittime, in Amnesty continua la risposta attiva di contrasto alla denigrazione violenta contro le donne. Come è avvenuto per le elezioni amministrative e poi per le elezioni politiche italiane del 2018 con la campagna Il barometro dell’odio (https://www.amnesty.it/barometro-odio/), anche per le elezioni parlamentari europee del 2019 è stato avviato un monitoraggio sui profili Twitter e Facebook dei candidati al Parlamento europeo per valutare opinioni e dichiarazioni su temi sensibili come genere, disabilità, migranti, persone LGBT, rom, minoranze religiose, altre minoranze. Fra gli incontri promossi sul tema da Amnesty International Italia ricordiamo quelli dell’11 giugno 2019 a Palazzo Giureconsulti a Milano, e l’Intergruppi organizzato a Piacenza nei giorni 30 novembre-1 dicembre 2019 con Federico Faloppa, Roberta Zaccagnini, Ilaria Masinara, Giulia Pirotti.
A pochi mesi dalla presentazione, nel luglio 2019, dei dati emersi dal secondo Barometro dell’odio, ha preso il via la terza edizione del progetto, il cui focus verterà su genere, identità di genere e orientamento sessuale. Contrastare i discorsi di incitamento all’odio – fino ad affrontare la narrazione a essi relativa – è una delle sfide del 2020.
Nel linguaggio dell’odio ritornano antichi stereotipi che hanno un’immediata risonanza emotiva. La crisi economica, la delusione per la crisi di una rappresentanza sempre più debole, intermittente, a bassa intensità, la grande sofferenza sociale hanno aperto la strada a un’antipolitica che porta con sé la riduzione di ogni concetto a slogan, la sostituzione dei social network alla pubblica opinione. La conoscenza del vero è un processo di approssimazione indefinita, il discorso d’odio è il suo contrario, la realtà è congelata in rappresentazioni distorte e minacciose fomentatrici di paure e risposte aggressive. Il populismo è un effetto della globalizzazione ma è anche una causa delle sue difficoltà. Infatti la persistenza di determinati immaginari rende più difficili i processi di diffusione della democrazia liberale, l’universalizzazione dei diritti, il superamento dei vincoli corporativi che frenano lo sviluppo.
Nel Dictionnaire des populismes appena uscito in Francia (per Les Éditions du Cerf, a cura di Christophe Boutin, Olivier Dard e Frédéric Rouvillois), si parla di populismi al plurale. L’elemento comune consiste nell’ergersi a voce del popolo, inteso come entità unitaria e contrapposto in blocco all’élite. C’è un rapporto evidente fra il fondamento comunitario del populismo e il rigetto della globalizzazione. I populismi di oggi si oppongono a una globalizzazione che spezza l’unità mitica del popolo non solo accentuando le disparità sociali, come secondo molti studi hanno fatto all’inizio tutte le rivoluzioni tecnologiche, ma dissolvendo le identità. Il rifiuto del cosmopolitismo richiama il discrimine fra la tradizione illuministica e un’altra, più antica, che si richiama a una dimensione sacrale. L’espressione scatenata, cinica, “libera” da convenzioni e limiti imposti dalla civiltà fa tutt’uno con il desiderio di avere un capo che pensi al tuo posto. Il linguaggio della legalità e dei diritti universali viene percepito come estraneo al linguaggio dei propri bisogni profondi. Sembra in effetti che quanto più uno si dimostri arrabbiato, privo di obiettività e fazioso, tanto più abbia il diritto di farsi alfiere della verità, poiché non si lascia ingannare dal discorso antipopolare delle élites.
Crediamo invece che nella dura realtà della globalizzazione le istituzioni democratiche, il diritto internazionale, i valori di libertà e eguaglianza siano i punti fermi cui dobbiamo ancorarci per non perire. Naturalmente ciò non ha niente a che fare con la difesa delle politiche che, non riuscendo ad affrontare adeguatamente i temi dei beni comuni, si sono arrese all’economia di mercato basata sull’interconnessione continua, dalla quale siamo travolti nell’integrazione dei sistemi produttivi e degli scambi a livello mondiale. Nel rovesciamento dei canali tradizionali del linguaggio, nella proliferazione dei canali di accesso all’informazione sono cambiate le modalità in cui avviene l’atto comunicativo. Nella separazione fra comunicazione e relazione sono cambiate le modalità di rapportarsi agli altri.
È proprio in un simile contesto che i valori di solidarietà vanno ribaditi. La libertà è nel vincolo civico che crea uno scambio reciproco di solidarietà fra cittadine e cittadini. Rotto questo vincolo, la persona si spoglia della responsabilità sociale di cittadino per tornare individuo, individuo in una solitudine sradicata, nel senso che rinuncia al codice di convivenza costruito da madri e padri, a qualsiasi soggezione morale, a qualunque obbligazione democratica. Qui è il ritorno degli antichi demoni e degli stilemi fascisti, inseparabili dalla distorsione della storia, dal rifiuto di ogni sua lezione, poiché da quella lezione tragica è nato il rifiuto del fascismo, della guerra, della dittatura, delle leggi razziali. Questo è il punto in cui possiamo riconoscerci, ritrovando la fonte di legittimità morale della nostra storia repubblicana proprio in quella Resistenza che ha combattuto il fascismo.
La crisi economica e ambientale che genera tanta sofferenza, di fronte a un futuro non più percepito come promessa di emancipazione globale ma come pericolo e incertezza, ci fa tuttavia comprendere la crisi del concetto di individualità che ci è stato trasmesso dalla cultura dell’età moderna e riproposto da un modello economico, quello del capitalismo selvaggio, che ormai deve essere radicalmente superato. Il sentimento di solidarietà genera l’esigenza di prefigurare un nuovo modello di individualità non più distinto dalla natura, che continuamente vediamo ferita e distrutta da un modello distorto di sviluppo; richiede di comprendere che separare la nostra umanità dall’ambiente è tanto sbagliato e rischioso quanto separare la ragione dal lato “irrazionale”, affettivo e pulsionale alla base delle nostre azioni.
Se c’è un bene da trasmettere alle nuove generazioni da parte di quelle che hanno conosciuto la società dell’immediato dopoguerra, i successivi tumultuosi sviluppi, le cesure di fronte alle quali si è dissolto ogni schema di progresso e di prevedibilità nel processo storico, si tratta del bene della memoria che diventa senso di responsabilità, desiderio di conoscenza, cultura, condivisione, nel sentimento di solidarietà e nel rifiuto dell’indifferenza.
Eugenia Marcantoni