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Libera Libere. Pensieri e pratiche femministe su tratta, violenza e sfruttamento
Questo libro, scritto a più voci da Ines Rielli, Monica Denitto, Francesca De Pascalis, Diana Doci, Laura Gagliardi, Maria Argia Russo, Olga Smirnova e Irene Strazzeri, è una raccolta di pratiche femministe nell’ambito della tratta non solo delle donne ma più in generale, delle persone. A partire dalla violenza sulle donne, passando per la tratta e lo sfruttamento anche degli uomini, il libro dà sfogo ad una voce critica ma costruttiva e propositiva. Una voce diversa, non una di quelle che vittimizza, che sostiene gli stereotipi e che agisce per categorie rigide. È una voce che contestualizza e valorizza l’umanità dell’individuo.
Il lockdown?
Non coinvolge forse anche i centri di assistenza, i servizi e le strutture dedicati proprio a questi uomini e a queste donne più fragili di altri?
E’ tempo di riflessione! Se non altro, del primo ne abbiamo molto a disposizione. Riflessione non solo sul quando vogliamo tornare, ma sul come vogliamo tornare ad essere.
Per aiutarci a farlo più consapevolmente, oggi ci serviamo delle parole di Laura Gagliardi, counselor ed esperta di formazione in percorsi di consapevolezza e di crescita personale. Sono state proprio le sue parole e le sue consapevolezze ad aver formato il gruppo di lavoro del progetto Libera da cui è poi partita l’idea di questo libro e del progetto propositivo e ambizioso per innescare un cambiamento.
Laura Gagliardi
Parliamo del vostro libro. “Libera libere” parla del grande tema della violenza e della tratta di esseri umani toccandone una sfaccettatura molto particolare. Vuoi raccontarci qual è e come siete arrivati a strutturarlo in questo modo?
Questo libro è una proposta metodologica e d’intervento. Racconta di un progetto nato a Lecce nel 2000 per lavorare contro la tratta. Si è occupato per 16 anni di donne e uomini sfruttati sessualmente o lavorativamente, offrendo loro la possibilità di uscire da questa situazione attraverso un progetto di protezione sociale, che dava loro un permesso di soggiorno.
Un progetto veramente importante che ci ha visto impegnate completamente. L’équipe di operatrici che io ho formato era tutta al femminile, elemento determinante che è stato fortemente voluto e, che ha caratterizzato il progetto.
Per noi le donne e gli uomini che vengono sfruttati non sono l’oggetto del nostro intervento, ma anzi, sono dei soggetti con i quali interagire in un contesto di simmetria relazionale e di influenza reciproca. Una visione differente, dove la donna viene ascoltata senza la pretesa dell’interlocutore di conoscere già la sua verità. L’obiettivo è quello di mettere al centro di tutta la nostra attività la relazione tra donne ma anche tra donne e uomini, di questi nel 2008 Libera ha accolto anche molti uomini che vivevano in condizione di schiavitù lavorativa.
Questo è un aspetto molto particolare. A primo impatto guardando il titolo e la copertina potremmo lasciarci convincere che si tratti di un libro per sole donne. Invece no. Si parla di persone siano queste donne o uomini. È parlando proprio della relazione tra individui, che intercettiamo una parola cardine del libro: “libertà”. Oggi si da quasi per scontato che le libertà fondamentali siano una sicurezza consolidata nel nostro sistema, ma in vero non sono forse messe a rischio? Ci sono categorie che potremmo intercettare in situazione di maggiore pericolo?
Se penso a una categoria fortemente a rischio, soprattutto in questa fase di costrizione e segregazione, penso a tutte quelle donne che si trovano in grande difficoltà, impossibilitate a contattare i centri antiviolenza piuttosto che i numeri anti tratta. Donne che vivono nell’isolamento e nella paura.
Le libertà una volta conquistate non sono mai date!
Anche a livello internazionale, mondiale, le libertà sono fragili e sono messe continuamente in discussione. E direi che la resistenza a cui siamo costrette come donne, per difendere i diritti che abbiamo, è continua, quotidiana e costante.
Se ci sono delle fasce più a rischio, sicuramente le persone più vulnerabili sono quelle che non hanno una autonomia economica, che vivono nell’isolamento o che sono private dei loro diritti fondamentali, come quello di studiare o peggio di muoversi. Oggi poi, in una condizione di recessione economica e di messa in discussione della normalità, nei tempi esagerati di una società liberista, probabilmente vulnerabili lo siamo un po’ tutti.
La speranza è quella che si possa tornare nei luoghi di lavoro, a incontrarsi, a socializzare, perché l’isolamento è una condizione che comprime, riduce fortemente e addirittura ostacola e impedisce la valorizzazione del sé.
La storia ce lo dice: siamo diventate più forti e più autodeterminate quando abbiamo cominciato a uscire dalle nostre case, quando abbiamo cominciato a incontrare le altre, a confrontarci, a lavorare e ad avere un’autonomia economica.
Il momento che stiamo vivendo è qualcosa di totalmente anomalo. Osservando ciò che sta accadendo in tutto il mondo e il modo in cui alcuni governi stanno gestendo la crisi, non sembra quasi essere tutto un pretesto per fare un enorme passo indietro sui diritti fondamentali?
Si! Colgo tutta la pericolosità di tutto quello che continua ad avvenire sia in altre realtà più atroci come i conflitti o le guerre in atto, ma penso anche alle condizioni dell’Italia, dell’Europa, dove esistono condizioni di isolamento che chiudono ogni possibilità mettendo fortemente a rischio i diritti.
Supponiamo per un attimo di riuscire a tornare alla nostra vita quotidiana. Pensi che i servizi di assistenza, che secondo ciò che spiegate nel vostro libro possono diventare talvolta degli strumenti di controllo sociale, vedranno un’evoluzione? In quale direzione? Quali sono le cause e le conseguenze che ci hanno portato a definirli tali?
La problematica consiste nel fatto che spesso operatori o assistenti di questi centri non hanno una formazione specifica sulle tematiche legate alla violenza di genere. Talvolta c’è una lettura troppo psicologica della violenza sulle donne. Ci sono ancora troppi pregiudizi e le donne vengono vittimizzate. Anche loro stesse si vittimizzano, perché è ciò che ci si aspetta da loro. Questa è l’immagine che viene loro continuamente rimandata e che non fa bene.
I servizi non si mettono in discussione. Il servizio tende a gestire categorie invece di ascoltare e di cercare nell’ascolto empatico, di guardare la donna che ha davanti. Questo modo di agire è uno stare con l’altra che perde assolutamente la soggettività. Quindi spesso queste relazioni non offrono davvero alla donna la possibilità di recuperare fiducia in sé stessa.
Purtroppo parliamo non solo di istituzioni, perché ci sono molte associazioni e cooperative che si occupano di servizi e progetti contro la tratta o la violenza. Gli sportelli o centri di primo ascolto hanno poca formazione di genere. Chiamano la donna vittima e definiscono il carnefice, anziché inserire tutto questo dentro a un orizzonte culturale e sociale che è quello che determina la violenza di genere. Vorrei ricordare che la tratta poi è solo uno degli aspetti. Il filo rosso della violenza è presente nel mondo. Questi servizi devono costruire relazioni tra donne, nella capacità di stare insieme, di vedere la persona non come donna da salvare o alla quale dire-insegnare come fare.
Ma quindi cosa manca? Nelle istituzioni educative e di formazione, nelle associazioni si ha forse una carenza o totale mancanza del valore della persona e della capacità di costruire quella relazione tra pari di cui abbiamo parlato?
Si, forse è tutto questo!
Purtroppo lo sfruttamento viene considerato normale. La tratta è una condizione strutturale nella divisione del lavoro internazionale, è la creazione permanente di manodopera a basso costo o a costo zero. Lavoratori senza alcun tipo di diritto mantenuti in condizione di schiavitù totale. Così anche per la violenza sulle donne. Considerata normalità e legata alla singola vicenda alla quale si da una lettura psicologica.
Manca la volontà di acquisire consapevolezza!
Gli uomini non sono disposti a mettersi in discussione. Il maschile dovrà cominciare a interrogarsi, a vedere la propria responsabilità. Ormai molte sono le donne che prendono la parola in pubblico, che sono impegnate socialmente, eppure vediamo nei media che la rappresentazione è sempre quella stereotipata, oggetti di piacere e di desiderio dell’altro.
E’ importante lavorare sulle nuove generazioni e cominciare a parlare di che cos’è davvero l’amore, cosa significa amarsi e che cosa vuol dire rispetto, ascolto, reciprocità. Le insegnanti devono perpetuare dentro sé stesse un cambiamento radicale, che non contraddica con i comportamenti quello che si discute. Il messaggio arriva forte anche attraverso i linguaggi non verbali.
Dunque davvero il lavoro è continuo!
Ci sono tantissime donne anche emancipate che vivono in una condizione di soggezione psicologica nei confronti del compagno o del marito. Quello che possiamo fare in questi centri antiviolenza gestiti da gruppi di donne che hanno sviluppato questo sapere, è dare alla donna una occasione vera di ascolto durante il suo percorso di fuoriuscita dalla violenza.
C’è bisogno di servizi, di investire, di muovere e sponsorizzare altri centri.
Queste risorse dovrebbero arrivare inevitabilmente dalle istituzioni, dall’attuazione di leggi migliori e mediante un processo di verticalizzazione, oppure cercando di spingere il cambiamento partendo dal basso? Qual è la via più forte per arrivare ad un cambiamento?
Probabilmente tutti e due. Spesso le donne che testimoniano un modo diverso di stare in relazione, lo fanno proprio nella quotidianità della loro vita e continuano a fare tanto.
Ma dall’alto c’è bisogno di una cultura diversa.
Oggi siamo di fronte a una cultura razzista, xenofoba, che ancora dipinge l’immigrato come una figura dalla quale difendersi. C’è bisogno che ci sia una presa di coscienza diversa dei problemi. Bisogna ribellarsi di fronte a ciò che viene fatto passare per normale e che invece non lo è. A volte le donne stesse pensano che sia naturale. Lo vediamo nella cultura di tanti paesi, dove ci sono leggi non scritte dove si chiede alla donna di essere accondiscendente, disponibile, di non contrastare l’uomo. Dobbiamo fare tanta strada, e la politica dovrebbe fare altrettanto.
Ma se ci confrontiamo con il reale, vediamo una cultura ferma.
Il fatto che siano le stesse donne a parlare di violenza e sfruttamento risulta “normale”. Ma che valenza assumerebbe questo tema se fossero gli uomini a parlarne? Verrebbe ascoltato di più?
Probabilmente. Oggi cominciano ad esserci centri di ascolto per per uomini che si interrogano e che cominciano a parlarne e a coinvolgere altri uomini.
Perché molte donne non provano nemmeno a chiedere aiuto?
Hanno paura di non essere credute! Le istituzioni non credono alle donne. Le donne devono ancora difendersi.
Quindi non solo si ritrova in una condizione deplorevole ma si scontra con istituzioni che non la sostengono. Di fronte a questa condizione mi viene da chiederti se abbiamo fallito. Abbiamo fatto passi avanti, ma sembra che dopo tanti anni di lotta non sia ancora abbastanza. Cosa possiamo fare oggi?
Propongo di non usare la parola fallimento.
È un progetto ambizioso quello di contrastare una cultura che esiste da tanto tempo, una cultura radicata, che viene continuamente alimentata. Il progetto di sentirsi riconosciute e di esprimere la propria libertà si scontra con questo dominio.
Ma dobbiamo continuare a fare tanto. Ogni volta che incontro una donna che riesce a ritrovare la sua autodeterminazione, che riprende la sua emancipazione, che ritrova la propria serenità, è una vittoria!
Dobbiamo continuare a praticare la libertà femminile, non dobbiamo rinunciare, dobbiamo intravvedere passaggi nuovi per raggiungere sempre maggiori traguardi.
Perché questo libro si chiama Libera Libere?
Libere perché non è una donna, ma sono tante. Nell’introduzione ho scritto “Libera, Libere, libere tutte!” Perché se non c’è la libertà delle altre, nessuna di noi è libera davvero.
Il lavoro che dobbiamo continuare a fare è portare il nostro pensiero dappertutto. Di contaminare i servizi che anziché essere autoreferenziali nelle loro procedure devono davvero cominciare a mettersi in discussione, a mettersi in ascolto verso l’altra.
A questo proposito abbiamo il web che ci aiuta a parlarne. Quanto questo strumento può aiutarci a portare avanti questo grido?
Non solo un grido. Una proposta, una progettualità. Anche se poi c’è sempre necessità di una relazione.
Questi strumenti tecnologici aiutano ma non bastano. Si può fare molto ma non se c’è segregazione e isolamento come in questo momento, in cui le donne in difficoltà fanno fatica a contattare i Centri perché sono chiuse in casa, con figli, con i compagni, con i famigliari e non possono trovare uno spazio per sé. Ma sicuramente è una risorsa.
Aggiungo altre due o tre cose.
È importante per tutte noi che lavoriamo nei servizi per la persona, sviluppare questa nostra vicinanza critica. Dobbiamo agire. E’ proprio questo scambio con l’altra che diventa un terreno comune. È un aspetto fondamentale, perché non dobbiamo mai porci nei confronti dell’altra pensando di sapere noi cosa sia importante per lei, o cosa lei deve fare o come lei deve comportarsi. Dobbiamo porci in ascolto e in base alle competenze e alle risorse che abbiamo come centri, associazioni e gruppi stabilire delle tappe per aiutarle a uscire dalla condizione in cui si trovano.
Se oggi potessi parlare a tutte le donne che si trovano in una condizione di violenza e che si trovano chiuse in casa, direi di resistere, di sapere che non sono sole, che ci sono i centri antiviolenza e anti tratta disposti ad aiutarle. E confortante sapere che c’è una possibilità. Vorrei dire loro di guardare in avanti perché ci sono centri e punti di riferimento che possono aiutarle.
Per ultimo, pensi che si potrebbe fare di più coinvolgendo i giovani, forse impostando un dialogo diverso, una narrazione diversa?
Assolutamente si. E si deve partire chiedendoci cos’è l’amore, e cosa vuol dire amare.
Cercando nel loro immaginario, magari con un bel confronto. L’ho fatto in alcune scuole e lavorando proprio a partire dalla parola amore. Andare a sviscerare e a tentare di capire, con una voce critica e che fa pensare. Spesso i ragazzi riconoscono a sé stessi delle libertà che non riconoscono nelle ragazze. Aiutarli a interrogarsi. Perché tu si e lei no? E ancora, che cosa vuol dire il bene dell’altro? Il mio godimento, la mia libertà: dove iniziano e dove finiscono?
Educhiamo all’amore. Possiamo fare tantissimo, insieme.
Grazie Laura!
Intervista a cura di Rossella Savojardo e Jorgelina Casajus
Libera Livere, AA.VV – Edizioni Radici Future | 2019