Nella notte tra il 2 ed il 3 dicembre del 1984, decine di tonnellate di isocianato di metile, un agente chimico utilizzato nella produzione di pesticidi, e oltre 12.000 chili di reagenti chimici fuoriuscirono dallo stabilimento di pesticidi della Union Carbide di Bhopal, in India. Nel giro di pochi giorni ci furono tra le 7.000 e le 10.000 vittime e altre 15.000 persone morirono nei 20 anni successivi.
A distanza di 30 anni, l’area di Bhopal non è ancora stata bonificata né sono state condotte inchieste adeguate sull’incidente e sulle sue conseguenze. Centinaia di migliaia di persone continuano a bere acqua inquinata ed a soffrire di malattie croniche associate al disastro, come disturbi respiratori, cancro, ansia e depressione, malformazioni genetiche, sterilità ed aborti spontanei.
I sopravvissuti sono tuttora in attesa di ottenere una riparazione equa ed adeguata per le sofferenze che il disastro ha provocato. Sebbene l’inchiesta iniziale abbia evidenziato gravi carenze nelle misure di sicurezza, la Union Carbide e con essa la Dow Chemical Company, del cui gruppo è nel frattempo entrata a far parte, hanno sempre sostenuto di non avere alcuna responsabilità per la fuoriuscita delle sostanze tossiche o per l’inquinamento provocato dall’impianto di Bhopal. Nel 2004 è stato corrisposto al governo indiano un compenso del tutto inadeguato: 470 milioni di dollari (a fronte di una richiesta iniziale di 3,3 miliardi di dollari) al cambio dollaro-rupia del 1989 (decisamente svantaggioso per l’India), somma che avrebbe dovuto essere destinata alle vittime del disastro ed alle loro famiglie.
Il 14 novembre 2014, grazie alle pressioni esercitate dagli attivisti per i diritti umani, il governo indiano ha deciso di rivedere le cifre dei morti e degli invalidi sopravvissuti al disastro (originariamente sottovalutate) e di richiedere alla Union Carbide ed alla Dow Chemical un risarcimento aggiuntivo; entrambe le aziende, tuttavia, declinano ogni responsabilità relativamente al disastro ed il 12 novembre 2014 Dow Chemical ha rifiutato di comparire dinanzi ad un tribunale indiano per rispondere all’accusa di omicidio colposo. Allo stesso tempo, Dow Chemical e Union Carbide continuano a rifiutarsi di bonificare il sito, di risarcire i familiari delle vittime e di fornire dettagli circa la composizione dei gas tossici fuoriusciti dall’impianto quella notte, informazioni che consentirebbero di fornire un miglior trattamento sanitario alle persone colpite.
Il disastro di Bhopal è ancora oggi uno degli esempi più drammatici di responsabilità aziendale per la violazione dei diritti umani, ma le responsabilità riguardano anche i governi. Il governo indiano, oltre ad aver ampiamente sottostimato il numero di persone colpite dal disastro, nei trent’anni successivi non è stato in grado di bonificare l’area dello stabilimento, né di garantire alla popolazione adeguate cure mediche. A sua volta il governo statunitense non ha chiamato la Union Carbide e la controllante Dow Chemical, che hanno sede sul proprio territorio, a rispondere di tale violazione dei diritti umani, consentendo pertanto ai responsabili del disastro (in primis l’amministratore delegato della Union Carbide ai tempi dell’evento, Warren Anderson, mancato lo scorso mese di settembre) di sfuggire alla giustizia.
Amnesty International continua a chiedere ai governi degli USA e dell’India di impegnarsi affinchè la Dow Chemical e la Union Carbide siano obbligate a presentarsi dinanzi alla giustizia indiana per rispondere del disastro di Bhopal. Inoltre, nel trentesimo anniversario del disastro, Amnesty International rivolge un appello al primo ministro indiano, Narendra Modi, chiedendo che venga avviata un’adeguata bonifica ambientale, che vengano fornite adeguate cure mediche ai sopravvissuti e che le aziende responsabili siano chiamate a corrispondere adeguati compensi alle vittime, a coprire i costi della bonifica ed a sottoporsi al procedimento giudiziario in corso.