Nello stato Rakhine, con capitale Sittwe, nell’ex Birmania, vivono molte etnie: la maggioranza Rakhine, di fede buddista, vive liberamente. Tra le etnie minoritarie c’è la minoranza Rohingya, di fede musulmana, di fatto costretta a vivere in miseria e sotto persecuzione. Il conflitto tra queste due etnie, i Rakhine e i Rohingya, che non sono riconosciuti come cittadini tra le oltre 130 etnie varie di cui è composto il Paese, ha radici complesse e lontane nel tempo.
Un drammatico caso di cronaca avvenuto nel maggio 2012, la cui responsabilità fu attribuita a persone di etnia Rohingya, diede il via a una reazione di vendetta contro di loro. Pestaggi, case incendiate e oltre 200 morti furono le conseguenze dei violenti scontri che ne derivarono e portarono all’adozione di misure estreme da parte dell’autorità, che impose ai Rohingya una sorta di nuova apartheid. Il governo birmano è da allora schierato di fatto con la maggioranza religiosa buddista, e il leader spirituale e capo del movimento anti-islamico Ashin Wirathu si è detto deciso a effettuare una vera e propria pulizia etnica.
Il contrasto etnico affonda le sue radici nel periodo della dominazine coloniale britannica, quando i Rohingya arrivarono in Birmania, dal Bangladesh, per unirsi alle forze delle Indie orientali. Oggi i Rohingya sono circa 700mila, sul totale di 3,8 milioni di abitanti nel paese. È in corso anche una diatriba per restituirli al Bangladesh, che peraltro non li vuole. Già nel 1992 quasi 300mila Rohingya cercarono rifugio in Bangladesh per sfuggire alle persecuzioni dei militari birmani, soltanto per essere ricacciati in Birmania pochi anni dopo.
Nel marzo 2016 è stato eletto in Myanmar il primo presidente civile dopo più di cinquant’anni di regime militare, Htin Kyaw, vicinissimo alla leader della Lega nazionale per la democrazia e premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. Ma nemmeno questo epocale cambiamento ha reso possibile una riconsiderazione delle politiche messe in atto nei confronti della popolazione Rohingya. Né Aung San Suu Kyi è riuscita ad avere parole di pietà e di speranza per loro.
Nella capitale Sittwe è sorto un ghetto nel quale i Rohingya sono costretti a condizioni di vita disperate, senza la possibilità di uscire liberamente, senza cibo né igiene, né assistenza medica, dove i medici volontari non hanno medicinali. Si tratta di fatto di moderni campi di concentramento in cui le persone conducono un’esistenza al limite della sopravvivenza e non hanno libertà di movimento, né di condurre una vita normale, di studiare, lavorare, di avere normali relazioni sociali. Possono uscire dai campi solo occasionalmente e sempre sotto strettissima sorveglianza. I fondamentali e più elementari diritti umani in questi luoghi sono misconosciuti.
Le sommosse represse nel sangue si ripetono periodicamente (1988, 2007, maggio e novembre 2012….). Le atroci violenze che vengono perpetrate in queste occasioni verso i deboli e indifesi, madri con i figli in braccio, neonati, vecchi, le case bruciate, le persone trucidate davanti ai figli, le donne violentate e mutilate… Più spesso queste orribili visioni ci vengono proposte da giornali e notiziari come commesse da mano terrorista, ma in questa parte del mondo è proprio la comunità islamica ad essere schiacciata.
Questo a dimostrazione che la violenza non ha religione, né colore di pelle o di vestito, non c’è nessuna ragione politica prevalente degna di nota… I poveri e gli indifesi esistono sempre in tutti i popoli così come esistono sempre i carnefici, l’odio è dentro l’Uomo e coglie alcune occasioni ed alcuni Uomini per dilagare. Nel caso dei Rohingya, essi non hanno la possibilità materiale di vivere, figurarsi se potrebbero mai rappresentare un pericolo per la società, così come si vuol far credere dai loro avversari. La più recente migrazione verso il Bangladesh è degli ultimi mesi del 2017, a seguito di ulteriori persecuzioni e violenze. Intere famiglie hanno perso la vita nelle loro case incendiate.
Pochi organismi indipendenti di aiuto internazionale riescono ad accedere alle zone interessate e non si riesce a fornire alcun tipo di garanzia per la popolazione Rohingya. Medici Senza Frontiere cerca di fornire tutto l’aiuto possibile. Quello che può fare l’Occidente è insistere sempre e ancora per sollecitare l’attenzione internazionale, affinché le pressioni sui governi del Myanmar e del Bangladesh conducano alla fine delle persecuzioni sui Rohingya al più presto.
Delia Dorsa