“Sembra che il no di una donna non valga quanto quello di un uomo” è la semplice valutazione espressa da Tina Marinari in apertura alla campagna “Io lo chiedo”, promossa da Amnesty International.
La Convenzione di Istanbul, ratificata nel nostro paese nel 2013, ha rappresentato l’introduzione di uno strumento internazionale giuridicamente vincolante per la tutela legislativa delle donne da qualsiasi forma di violenza. L’articolo 36, in particolare, si occupa della ridefinizione dei reati di natura sessuale: “Il consenso” – recita il testo – “deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto”. In Italia, indica Amnesty International, il codice penale fa riferimento a una definizione di stupro, “basata esclusivamente sull’uso della violenza, della minaccia di uso della forza o della coercizione”, senza alcun riferimento al principio di consenso. Introdurre il principio di consenso contribuirebbe a garantire un accesso più sicuro e diretto alla giustizia alle vittime di violenza sessuale. Amnesty chiede che il diritto nazionale si adegui al diritto internazionale, così che l’articolo 609 bis del codice penale si adegui all’articolo 36 della Convenzione di Istanbul.
Il lavoro dell’associazione non potrà però situarsi semplicemente sul piano legislativo, ma dovrà rivolgersi anche e soprattutto al versante della cultura, della rappresentazione della violenza sulle donne trasmessa dai media, attraversata più di quanto non si creda da falsi miti e stereotipi duri a morire, poiché fanno parte di una lunga storia di cui siamo eredi e della quale non abbiamo mai finito di diventare consapevoli.
In maniera analoga, la convinzione che dove non c’è consenso c’è violenza ha certamente dalla sua parte la coerenza logica ma viene contrastata da aspetti di mentalità diffusa sedimentati nelle istituzioni e in un senso comune che dobbiamo riconoscere, senza la presunzione di esserne immuni. La “forte spinta a un cambiamento culturale” si pone quindi come motivazione e linea guida nella campagna “Io lo chiedo”.
Fra i contributi recenti, le tematiche dei condizionamenti culturali e delle buone pratiche di sostegno rivolte alle donne che subiscono violenza e vogliono uscirne vengono affrontate nel libro di Manuela Ulivi, Vive e libere. La violenza sulle donne raccontata dalle donne, pubblicato nel 2019 per i tipi di San Paolo Edizioni.
Manuela Ulivi, avvocata civilista, è presidente di Cadmi, la Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano. La Casa aderisce alla associazione nazionale D.i.Re, Donne in rete contro la violenza. Quando Cadmi venne fondata nel 1986 molti aspetti della violenza contro le donne non erano riconosciuti tantomeno si poteva prevedere divenissero oggetto di questione penale (p. 66), a partire dalla violenza domestica, confinata nel silenzio che avvolgeva l’area della famiglia, istituzione intoccabile per una cultura patriarcale che almeno qui in Italia ha cominciato a essere scalfita solo negli ultimi decenni del secolo scorso, quindi appena ieri.
Ulivi ci aiuta a ripercorrere le tappe della crescente tutela legislativa delle vittime di violenza, tutela che ha corrisposto alla richiesta proveniente dalla società grazie anche al ruolo fondamentale avuto dal movimento delle donne. Nella politica delle donne vediamo persistere l’aspetto progressivo che aveva connotato i cambiamenti nelle istituzioni e nella legislazione avvenuti in altre epoche della storia italiana del secondo dopoguerra. Se pensiamo all’approvazione dello Statuto dei Lavoratori (1970), al nuovo diritto di famiglia (1975), alla legge sul divorzio (1970, poi confermata dal referendum del 1974), all’abolizione delle disposizioni sul delitto “d’onore” e sul matrimonio “riparatore” (1981), pensiamo a un’era nella quale le forze sociali riuscivano a farsi sentire così che “le leggi tenevano in considerazione, seguivano e ascoltavano i mutamenti della società”, a differenza di quanto avviene oggi (p. 49).
La violenza contro le donne è però ancora sottoposta a una narrazione che ne svisa il significato e ostacola il percorso di uscita da una realtà quotidiana di pericolo immediato o comunque di maltrattamento, che può verificarsi su piani diversi: psicologico, fisico, sessuale, economico. Come scrive nella prefazione Lucia Annibali, la macchina mediatica della “spettacolarizzazione” tende a esaltare stereotipi di vittimismo (p. 7) mentre “dietro ogni vissuto di violenza c’è una donna con le sue emozioni, i suoi sentimenti, le sue fragilità ma anche con la sua capacità di rimettersi in gioco e di riscoprire le sue risorse e la sua forza” (p. 8).
Nei percorsi pioneristici di Cadmi, primo centro antiviolenza fondato in Italia, e fra i primi ad aprire, a partire dal 1990, case rifugio segrete per donne in stato di grave pericolo (p. 71), va compreso il punto essenziale della relazione tra donne come salvaguardia della comune esperienza e possibilità di riscoperta di forza e valore. “Essere in relazione tra donne significa riconoscere in noi una differenza che ci accomuna, dando valore alla competenza che è in ciascuna” (p. 113).
In percorsi che mirano al reinserimento sociale, alla riconquista dell’autostima, primo obiettivo della pulsione distruttiva del maltrattante, e che molte volte si sono tradotti nella ripresa di un’attività lavorativa abbandonata o in un nuovo inserimento nel mondo del lavoro, la relazione, pur nella salvaguardia delle competenze specifiche delle operatrici, rimane “orizzontale” (ibid.), caratterizzata non dà giudizi di valore aprioristici ma dal confronto e dallo scambio. Si tratta di rimanere accanto alla persona senza negare la sua esperienza in base a schemi rigidi e precostituiti. Spesso la donna accetta la sottomissione per difendere i figli o evitare loro situazioni difficili e gravose. Un diverso punto di vista non può essere imposto ma può scaturire da un cammino verso l’autonomia che si realizza grazie alla relazione, dove la condivisione delle esperienze, la comunicazione, il dare parola a frustrazione e dolore diventano momenti della riconquista di sé.
Subire la violenza isola, il proprio vissuto appare incomunicabile e mostruoso. Mettere in comune le singole esperienze, in una relazione finalmente libera da dinamiche di potere e sopraffazione, fa comprendere come la vicenda che innanzi tutto alla sua protagonista appare inaccettabile, sia certamente particolare e unica ma dotata di senso, una storia umana, simile a tante altre storie. Le modalità di recupero sono diverse ma devono comunque partire dal riconoscimento della concreta esperienza delle donne, che poi dimostrano di ritrovare capacità di reazione, autonomia, forza, ottimismo inaspettati.
Ulivi descrive alcune delle sue esperienze con le donne con una scrittura che entra nel vivo di entusiasmi giovanili e scelte professionali, con tocchi e rimandi autobiografici che ci consentono anche con leggerezza di ripercorrere momenti importanti nella storia del nostro paese e nella storia del movimento delle donne; descrive inoltre nel suo legame con la pratica (p. 33) la particolare metodologia di lavoro sua e di altre avvocate impegnate nei centri antiviolenza.
Partire dall’esperienza e rimanervi fedeli significa rendersi conto che “soprattutto nella nostra materia il diritto era carente e (…) a volte dovevamo lavorare tra le maglie della legge, adottando espedienti e facendo richieste ai magistrati particolarmente ardite nell’interpretazione delle norme, con lo scopo di costruire nuove strade del diritto e creare la possibilità per le donne di poter contare anche su questo percorso” (ibid.).
Abbiamo qui l’esempio di un’attività legale in cui non si perde l’anima dell’azione sociale e politica, nel senso ampio e antico della parola. “Ogni giorno noi avvocate”, scrive Ulivi, “lavoriamo con le regole non solo e non tanto per applicarle, ma anche per interpretarle e per utilizzarle per raggiungere ciò che riteniamo sia la cosa giusta. Ma le regole hanno dei limiti, sono sempre un prodotto umano e quindi, come tali, passibili di errori e perfettibili, soprattutto quando avanzano nuove sensibilità e costumi sociali” (p. 158).
Eugenia Marcantoni