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La forza della parola, “gran dominatore” (logos dynastes megas), la capacità delle parole di prevalere sul principio di realtà con la loro fascinazione travolgente sono testimoniate già nel V secolo a.C. nell’Encomio di Elena di Gorgia da Lentini, alle origini della filosofia occidentale. Non possiamo dubitarne ai giorni nostri in una società universalmente definita “della comunicazione”. Solo che quello che domina, nella nostra quotidiana esperienza, è un linguaggio semplificato, diretto all’interlocutore con la genuina schiettezza della brutalità.
In un testo ora tradotto da Einaudi, La lingua di Trump (2019), Bérengère Viennot definisce ad esempio “maltrattamento verbale” gli epiteti che Donald Trump ha rivolto spesso alle donne. Caratteristiche del linguaggio del presidente americano uscente, sconfitto nelle recenti elezioni, sono, per la scrittrice e traduttrice francese, “sintassi frammentaria, vocabolario elementare e soprattutto ripetizione all’infinito delle stesse parole” come great, tremendous, l’espressione rafforzativa believe me, usata “soprattutto quando mente”. “Le donne sono oggetti esteticamente piacevoli” aveva affermato fra l’altro Trump nella autobiografia pubblicata nel 2006. Anche abbandonando il campo della misoginia, abbiamo continuamente a che fare, nei social e nel discorso comune, con stereotipi e pregiudizi. Ma come definirli? Come avviene la narrazione che genera discriminazione e odio?
A queste e a molte altre domande risponde il recente studio di Federico Faloppa, pubblicato nel giugno 2020, intitolato # Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole. Il tema del discorso d’odio (hate speech) viene qui affrontato ad ampio spettro nella sua problematicità. Faloppa spiega come sia difficile darne una definizione, benché definizioni siano state proposte dal Consiglio d’Europa (cfr. pp. 28-29) e si ricavino dalle Convenzioni internazionali, ad esempio dalla Convenzione Internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, adottata dalle Nazioni Unite nel 1965, sulla spinta dei movimenti per i diritti civili sorti negli anni Sessanta del secolo scorso.
L’autore esamina le differenze esistenti nei contesti giuridici in Europa e negli Stati Uniti, con particolare attenzione a quello italiano. Ricorda inoltre i temi di lunga durata storica, sui quali avevano cominciato a porre l’attenzione gli storici delle Annales. Molti esempi se ne possono trarre, a partire dai luoghi comuni sulle donne, gli ebrei, gli stranieri in generale, cui vengono riservate metafore quali la “non umanità” oppure, di frequente, il contagio. “Il contagio sbarca in Italia”, “Lo hanno portato gli immigrati”, sono titoli apparsi di recente su quotidiani italiani. Fra i topoi presenti nella cultura popolare, a lungo l’immagine dello zingaro è stata sovrapposta a quella dello straniero per antonomasia, rapitore di bambini e portatore di malattie. Le conseguenze di simili dicerie sono raffigurate con singolare intensità nella novella di Giovanni Verga, Quelli del colera (1887).
Faloppa ha deciso di riportare nel testo “insulti, ingiurie ed espressioni offensive nella loro interezza e grafia originale, senza censure” (p. 11). L’obiettivo non è stabilire classificazioni rigide o qualificare il discorso d’odio come “di destra o di sinistra” ma capire quali ne siano le modalità, quali le variabili, le cause e gli effetti, cosa significhi “linguaggio” negli ambiti presi in esame. Sulla complessità del linguaggio, fra i testi di Faloppa ricordiamo Brevi lezioni sul linguaggio (Bollati Boringhieri, 2019). Il discorso semplificato, che attraverso le sue etichette crea una visione distorta della realtà, si ritrova in tutti i colori politici, almeno nella scarsa attenzione alle scelte lessicali e nel ricorso a luoghi comuni che a volte, nonostante le dichiarate buone intenzioni, finiscono per confinare le persone nel ruolo passivo delle vittime. È comunque difficile trovare criteri generali che possano fare da minimo comune denominatore fra le diverse forme di hate speech (p. 26).
La risposta non può essere cercata in valutazioni precostituite ma nelle modalità che danno origine agli stereotipi, orientandosi fra le diverse definizioni che sono state date al pregiudizio. Valgano come esempio quelle formulate da Gordon Allport, che con i concetti di “categoria primaria” e “finger-pointing word” mette in luce come ogni etichetta affibbiata a un individuo si riferisca solo a un aspetto del suo essere e non alla totalità di esso. Si apre qui un filone che conduce al discorso de-umanizzante del colonialismo, del razzismo scientifico, del Volksgeist degli stati nazionali nell’età dell’imperialismo europeo. Dalla vulgata derivano comportamenti basati non sulla conoscenza e sul contatto diretto ma sull’interiorizzazione di stereotipi.
Altre modalità di semplificazione, ma potremmo dire di inganno linguistico, sono le fallacie retorico-argomentative. Per chiarire di che si tratta, prendiamo, fra i moltissimi sullo stesso tono, un post pubblicato su Facebook sul caso famoso della nave Diciotti:
“Immigrati della Diciotti in sciopero della fame? […] In Italia (dati Istat 2017) vivono 5 milioni di persone in POVERTÀ assoluta (fra cui 1,2 milioni di BAMBINI) che lo sciopero della fame lo fanno tutti i giorni, nel silenzio di buonisti, giornalisti e compagni vari. Per me vengono prima gli italiani”.
È evidente che non vi è alcun legame logico, né di causa ed effetto, fra lo sciopero della fame delle persone bloccate sulla nave Diciotti e i dati sulla povertà in Italia, che costringerebbero alla fame 5 milioni di persone. Senza inoltrarci nell’enumerazione delle fallacie argomentative, possiamo riconoscere che esse entrano ormai nella nostra esperienza quotidiana.
Si può denigrare in tanti modi, come ha spiegato Tullio De Mauro. Al grande linguista risale anche l’espressione “analfabetismo funzionale” a proposito dell’incapacità della maggior parte degli italiani di raggiungere il livello minimo di comprensione e buona utilizzazione di un testo scritto. De Mauro ha elaborato un’ampia casistica delle “parole per ferire” (p. 145), che tali sono perché rivolte a creare umiliazione e dolore e a colpire il destinatario nell’immagine e nella stima di sé. A proposito del discorso discriminante, di solito non si prendono in considerazione termini come “beduino”, “polentone” o “babbeo”, che pure possono risultare più o meno offensivi a seconda del tono o del contesto.
Una “piramide dell’odio” é stata descritta dalla Commissione “Jo Cox” sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni d’odio (10 maggio 2016 – 20 marzo 2018) voluta da Laura Boldrini, presidente della Camera nella XVIII Legislatura. Boldrini, colpita a sua volta sui social da una volgare e indegna campagna denigratoria, aveva proposto la commissione pensando a chi non è in grado di difendersi e, come spesso avviene, non è capace di denunciare.
Le false rappresentazioni generano sentimenti, un “capitale simbolico” facilmente riattivabile nel discorso pubblico e nei media. Dalla discriminazione alla violenza il passo può essere assai breve. Quando la discriminazione diventa attiva e non viene contrastata, minacce, vandalismo, aggressioni fisiche e violenza possono divampare nella realtà.
Non si può negare d’altronde il ruolo delle fake news nella storia. Di recente Robert Shiller ha descritto come le storie “virali” influenzino il comportamento economico individuale e collettivo. Ma se pensiamo all’esempio della Rivoluzione francese, in esso la successione travolgente degli eventi appare inestricabile dal diffondersi e ingigantirsi delle false notizie. Limitandoci a citare Georges Lefebvre, la situazione “favoriva naturalmente le moltiplicazioni delle notizie false, la deformazione e il gonfiamento dei fatti, la germinazione delle leggende”. La “grande paura” del 1789, scrive Lefebvre, fu “una gigantesca notizia falsa”.
Anche il politically correct, pur nelle esagerazioni, nasce dalla consapevolezza del valore performativo del linguaggio, della sua capacità di incidere sulla realtà. Il pregiudizio si forma perché utile alla specie nell’orientarsi nel mondo e nella necessità di prevedere gli eventi, ma la nostra specie ha anche appreso nel tempo a superare il livello del pregiudizio e a fondare le proprie scelte razionali sulla conoscenza. Bisogna aggiungere che la chiusura, come indifferenza e rifiuto, nei confronti dell’esperienza altrui, la mancanza di empatia è un impoverimento della personalità, una sorta di “analfabetismo emotivo” ovvero “un’assenza di consapevolezza e di controllo sulle proprie emozioni, su ciò che le provoca e sui comportamenti associati e quindi l’incapacità di relazionarsi con le emozioni altrui: non percepite, non riconosciute e quindi non comprese” (p. 126).
Federico Faloppa, docente di linguistica presso l’Università di Reading, ha lavorato in particolare sul tema della costruzione del “diverso” nelle lingue europee, della rappresentazione mediatica delle minoranze, della produzione e circolazione del discorso razzista in Italia. La sua attività nell’università britannica comincia nel 2008 nel Dipartimento di Italiano fondato dal partigiano e scrittore Luigi Meneghello e illustrato dall’insegnamento di Giulio Lepschy. Faloppa è inoltre collaboratore di Amnesty International Italia per i discorsi d’odio e membro del Committee of Experts on Combating Hate Speech del Consiglio d’Europa.
Il suo Manuale di resistenza alla violenza delle parole “riprende e sviluppa un primo manuale scritto nell’autunno 2018 proprio per Amnesty, come risultato di una riflessione collettiva attivata all’interno del Tavolo per il contrasto ai discorsi d’odio, nato grazie al lavoro e alla lungimiranza dell’Ufficio Campagne di Amnesty” (p. 289). Successivamente è stata costituita la Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio. Attraverso questo lavoro, Amnesty è riuscita a inserire il contrasto all’hate speech nel quadro delle sue attività a difesa dei diritti umani. Da qui il progetto, nato tre anni fa, di un percorso di formazione per costituire la Task Force Hate Speech e, a partire dal 2018, il monitoraggio attraverso il Barometro dell’Odio, strumento innovativo e di partecipazione attiva. Il lavoro sui dati forniti da Amnesty mira alla produzione di un senso alternativo, un diverso modo di raccontare il mondo, per sviluppare una cultura, una politica, una reale attitudine al pluralismo ed alla convivenza.
Il professor Faloppa ha incontrato gli attivisti di Amnesty impegnati nella Task Force a Milano lo scorso 26 settembre 2020. La sua relazione aveva aperto il convegno organizzato da Amnesty Lombardia a Piacenza nei giorni 30 novembre – 1 dicembre 2019. Il lavoro sul linguaggio va compreso attraverso la “spinta non solo… professionale ma anche intellettuale ed etica” che ne è alla base. Dal contrasto al linguaggio d’odio proviene un messaggio positivo, la possibilità di un lavoro “educativo e non repressivo”(p. 196) che, contro le forme sempre frustranti di impoverimento, apra all’infinita creatività del linguaggio per cogliere “quanto sia interessante e appassionante continuare a scoprire che cosa sia il linguaggio, la sua inesauribile ricchezza, la sua complessità evolutiva, biologica, strutturale” e soprattutto “la sua straordinaria umanità: quella formidabile abilità che è di tutti gli esseri umani, che ci rende (tutti) umani. E che nessun muro – da quelli reali a quelli della stupidità – per quanto alto, potrà mai frammentare, differenziare, dividere” (Brevi lezioni sul linguaggio, 2019).
Federico Faloppa, # Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole, Utet, Milano 2020, pp. 291, ed. cartacea, 18 euro, ebook, 2,99 euro
Eugenia Marcantoni