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Narra di una vicenda autobiografica il romanzo Il paese di calce di Bibi (Lillyam) Tomasi, frutto di diverse riscritture in un lungo percorso di conoscenza e rielaborazione che sappiamo aver accompagnato a più riprese il corso di una vita.
Il testo fu pubblicato per la prima volta nel 1999, pochi mesi prima della morte della sua poliedrica autrice, giornalista, scrittrice, fotografa, animalista, figura di riferimento in Italia nel movimento delle donne. Nel 2018 abbiamo avuto la nuova edizione del libro, a cura di Margherita Giacobino, Pat Carra e Piera Bosotti, con una foto di copertina concessa gratuitamente da Letizia Battaglia.
Le prime pagine ci portano nell’Appennino romagnolo nel 1944, ultimo anno di guerra, tra la fame, il sangue della popolazione civile, l’insensatezza delle stragi della guerra mondiale. Sembra un altro mondo, incomparabile con il nostro; eppure molte e molti dell’attuale generazione dei nonni lo ricordano bene.
Qui, e poi in un campo per profughi a Firenze, seguiamo le vicende di due ragazzi: Alfonso, che, renitente alla leva imposta dalla Repubblica di Salò, era stato protetto, accolto e sfamato dalla famiglia di Dina, e Dina stessa, ragazza autonoma e coraggiosa, ora disperata perché nell’ultimo bombardamento ha perduto Sarah, la sua amatissima cagnetta. Alfonso convince Dina, con l’accordo dei genitori di lei, a seguirlo in Sicilia, dove la guerra è finita, ci sono il mare e il calore del sole, si può sfuggire finalmente al freddo, alla fame, alle lunghe file per ogni necessità quotidiana.
Dina non ricambia i sentimenti, all’inizio non del tutto esplicitati, di Alfonso. Per lei quel compagno dei giorni di guerra non è altro che un amico. Da amici i due ragazzi raggiungono il piccolo paese, presumibilmente nella provincia di Agrigento, dove si trova la famiglia di Alfonso, la madre, il cognato e le due sorelle, ora in lutto stretto per la morte del padre, avvenuta da pochi giorni.
La guerra ha cambiato i due ragazzi. Appena tornato a casa, Alfonso realizza come nel ritrovato contesto familiare e sociale, rimasto immutato, risultino incomprensibili la semplice amicizia e la condivisione di spostamenti, viaggi, giorni di rifugio da parte di due coetanei di sesso diverso. Il lascito della guerra è nella penuria e nella desolazione che si respirano nella geometria delle strade di calce, interrotte da aiuole di gerani infuocati.
Vi è inoltre la difficoltà a lasciare l’isola poiché gli spostamenti sono contingentati mentre nel Nord della penisola la guerra ancora continua. Un amore reciproco nasce, ma è fra Dina e Delia, la sorella più giovane di Alfonso. Ne avvertiamo il nascere come un immediato sentimento di attrazione e armonia nei primi momenti inconsapevole. “Sono contenta che tu sia qui” ‒ “Sono contenta che tu sia tu”. Al senso di morte provato nei giorni di guerra si sostituisce il calore fluido proprio della vita.
Si comprende subito che amore e libertà non potranno esprimersi, seguire il loro corso vitale e naturale. La chiusura irremovibile della tradizione, dell’ambiente sociale e addirittura fisico è concreta, palese e senza rimedio. Delia ha un fidanzato al fronte; la madre di lui, la “suocera”, irretisce la ragazza nell’ossessività della preoccupazione per l’assenza del figlio e del suo bisogno di compagnia, in una sorta di stalking, come osserva Giacobino nella postfazione. Anche, forse ancor più, negli esempi meno lampanti si colgono gli aspetti implacabili di un tessuto sociale dove le donne assumono il ruolo di custodi del potere maschile, violente e impietose.
L’amore fra due donne è cosa proibita. Le ragazze troveranno contro di loro la legge non scritta della famiglia patriarcale, appoggiata dalla condanna della Chiesa e simultaneamente dall’intervento di Cosa Nostra. Tutto ciò nella passività e nel sostanziale assenso del potere costituito, pur formalmente retto da leggi che dovrebbero garantirle come libere cittadine. “Tu hai peccato contro natura”, dirà il prete a Dina, quando questa verrà rinchiusa in un manicomio, che percepiamo peggiore perfino delle prigioni di allora. Riuscirà a sottrarsene solo quando il padre potrà raggiungerla, per farle varcare un’altra volta lo stretto di Messina e riportarla a casa.
Invece Delia, che a quanto si comprende non se ne potrà andare, verrà privata di quella libertà che le era apparsa insieme all’amore, poiché l’esperienza dell’amore è la più essenziale e profonda esperienza umana di libertà. Una solidarietà rassegnata ma profonda e autentica verso le sventure delle due giovani donne viene dalle persone umili e semplici, dai lavoratori della zolfatara presso i quali Dina e Delia trovano un precario rifugio nel tentativo di lasciare l’isola, e soprattutto da un indimenticabile, fatalista e sapiente gruppo di donne, dominato dalle “zitelle”, che seguono la vicenda con i loro commenti e accorati consigli, vero e proprio coro greco (Giacobino), che commenta l’infelice sorte delle due ragazze con genuini intercalari dialettali e affettuosa pietà.
Bibi Tomasi, Il paese di calce, Nuove pratiche editrice, Milano 1999; Il Dito e La Luna Edizioni, Milano 2018, pp. 168.
Eugenia Marcantoni