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Negli anni ’90, il conflitto dei Balcani fece ripiombare sull’Europa il terribile spettro della guerra. Una guerra sanguinosa e fratricida, consumatasi a pochi chilometri da casa nostra, in grado di provocare enormi atrocità e mutare per sempre le dinamiche sociali. Una guerra caratterizzata dall’odio e dalla mancanza di tolleranza reciproca verso le diverse etnie e religioni, capace di condizionare in maniera devastante e permanente le generazioni future. Dal processo di smembramento della Jugoslavia, nel 1992 nasceva la Bosnia ed Erzegovina, una nazione nuova e multiculturale, piena di mille contraddizioni e che da anni sta cercando invano di superare gli effetti dell’ultimo conflitto.
Negli scorsi mesi, la Bosnia ed Erzegovina è tornata al centro di innumerevoli discussioni e approfondimenti, in particolare per quel che concerne la situazione nel campo profughi di Lipa, situato a pochi chilometri dalla città di Bihać, vicino al confine croato. Nel corso dell’ultimo anno, è stato l’unico rifugio per migliaia di migranti in cerca di un futuro migliore, provenienti soprattutto da Afghanistan, Bangladesh e Pakistan, respinti dalla Croazia, dalla Slovenia e dall’Italia. Il campo di Lipa era sorto nell’aprile del 2020 per ospitare i migranti, tutti uomini, in maniera provvisoria, soprattutto per gestire “l’emergenza nell’emergenza”, ossia l’impatto della pandemia sulle migrazioni. Inoltre, si voleva evitare la costruzione di campi all’interno della città di Bihać, per tenere a freno le proteste delle popolazioni locali contro i migranti.
L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), che gestiva il campo di Lipa, aveva da tempo denunciato come l’area non fosse idonea a ospitare un numero così elevato di persone per diverse ragioni. In primis, perché situata su un altopiano lontano dalla città, inoltre perché priva degli standard umanitari necessari, quali le forniture di acqua potabile, di fognature, di elettricità, nonché di un sistema di riscaldamento.
Il 23 dicembre 2020, in concomitanza con la decisione dell’OIM di abbandonare la gestione del campo, un rogo, le cui cause ancora oggi restano ignote, lo ha devastato lasciando i profughi in balia del rigido inverno balcanico e di loro stessi. Nelle settimane successive all’incendio, è fallito il piano di trasferimento dei profughi in un nuovo campo a Sarajevo e molti di essi hanno cercato rifugi di fortuna nei boschi e nelle foreste a pochi chilometri dalla Croazia.
Tuttavia, l’esercito bosniaco ha allestito una tendopoli temporanea con un piccolo sistema di riscaldamento ed elettricità. Le condizioni igienico-sanitarie sono molto preoccupanti, in quanto la scabbia sta diventando endemica e ci sono parecchi casi di raffreddamento e congelamento. I profughi inoltre sono privi di calzature e indumenti adeguati ad affrontare il gelo. Nel momento in cui hanno provato a attraversare la frontiera croata, sono stati immediatamente bloccati dalla polizia, arrestati, denudati (ci sono state denunce di abusi sessuali), picchiati e privati anche dei loro effetti personali, cellulari e denaro.
Di chi sono le responsabilità? Della Bosnia ed Erzegovina? Un Paese non aderente all’Unione Europea con tassi di povertà e di emigrazione molto alti, che non riesce e non è riuscito nel corso degli anni a dotarsi di un sistema di accoglienza adeguato alla situazione corrente. O dell’Unione Europea? La crisi sanitaria ha infatti avuto un peso enorme negli ultimi mesi, per questo le frontiere sono state chiuse e il viaggio attraverso la rotta balcanica è avvenuto più lentamente rispetto a prima. Tutto ciò ha anche comportato una permanenza più estesa nei Paesi dei Balcani occidentali, in cui i profughi si sono trovati forzatamente bloccati durante dall’inizio della pandemia. A questo si aggiunge un complesso di politiche di respingimento che sono state applicate, e ciò è facilmente documentabile, in tutti i Paesi della rotta balcanica, a partire dalla Grecia (il primo Paese di approdo per chi proviene dalla Turchia), così come anche dalla Croazia.
Vi è quindi una violazione sistematica dei diritti umani, in quanto il respingimento è considerato un metodo illegale perché contrario alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e alla Convenzione sui Rifugiati. Nonostante ciò in molti Paesi europei questa pratica è usata ancora troppo spesso. È importante che l’Unione Europea affronti il problema dei profughi non più trattandolo come una questione emergenziale, ma attivi un piano duraturo ed efficace.
Si è constatata la mancanza di una politica condivisa, europea e internazionale, che riesca a risolvere il problema dell’accoglienza alla radice. Il Patto sull’immigrazione e sull’asilo, presentato a settembre del 2020, non prevede alcuna gestione legale della migrazione per cui non vi è la possibilità di attraversare i confini in maniera legale. Queste persone, a cui spesso è riconosciuto lo stato di vulnerabilità e che quindi avrebbero il diritto a ottenere l’asilo in Europa, non hanno altra possibilità se non quella di affrontare questi lunghi ed estenuanti viaggi in maniera del tutto irregolare e illegale.
Francesca Braga