In questo periodo è meglio non fidarsi dei russi. Avevano dichiarato di disapprovare la violenza della repressione in Myanmar, ma alla parata del 27 marzo che celebrava la giornata delle forze armate, al fianco del generale Min Aung Hlaing c’era il viceministro della difesa Alexander Fomin: le preoccupazioni dei giorni precedenti erano svanite nel nulla e una nuova promessa di aiuti militari confermata.
Alla fine di quella giornata, stampa e televisioni hanno diffusamente documentato il bagno di sangue tra i dimostranti e non solo, più di cento le vittime. I militari hanno sparato anche ai bambini. Eroi innocenti, che hanno commosso il mondo. Dopo questi nuovi tragici avvenimenti, le parole dei leader occidentali si sono fatte durissime. “Inaspriremo le sanzioni contro i perpetratori di questa violenza”, ha promesso l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell, mentre l’inviata speciale dell’Onu Christine Schraner Burgener ha invocato sanzioni mirate a bloccare le attività di maggior profitto per i generali, come il settore alberghiero e l’industria mineraria.
Una reazione inaspettatamente severa si è vista anche nei paesi dell’ASEAN. In particolare Indonesia e Singapore, fermi nella condanna dell’operato della giunta militare, insieme al Giappone stanno cercando di trovare un’intesa con gli altri stati membri che punti a una mediazione per ristabilire la pace. Amnesty International insiste con fermezza affinché le Nazioni Unite agiscano in fretta, e a questo proposito la nostra sezione ha diffuso un appello online.
Cosa sta succedendo, intanto, laggiù? La repressione continua, sempre feroce, e continua anche l’ammutinamento. Mentre le attività produttive sono ancora chiuse e i manifestanti scendono in piazza sotto il fuoco delle forze di sicurezza, il governo ombra (CRPH) ha ufficialmente dichiarato terrorista l’esercito regolare e cancellato quell’etichetta per le armate delle minoranze etniche. La discesa in campo dei Kachin, nel Nord del paese, e dei Karen, nel Sud, al confine con la Thailandia, non si è fatta attendere. Entrambe etnie a maggioranza cristiana, evangelizzate dagli inglesi per fomentare il conflitto con la Birmania buddista, per la prima volta si sono schierate a fianco dei loro fratelli birmani nella lotta contro il Tatmadaw, l’esercito regolare del Myanmar, senza armi, all’interno del movimento di disobbedienza civile, e in combattimento.
Se il Kachin Independence Army (KIA) ha dato ordine alla popolazione civile di scavare rifugi sotterranei per ripararsi dagli attacchi aerei e ha già occupato degli avamposti di polizia, in territorio Kayin combatte la Karen National Union (KNU), mentre a migliaia i civili lasciano i loro villaggi devastati dai militari e si rifugiano in Thailandia. L’unità tra birmani e minoranze etniche ignorata in tempo di pace si sta realizzando in tempo di guerra e, speriamo, porti la fine della dittatura e una vera democrazia in Myanmar.