La squadra dei rifugiati ai Giochi olimpici di Tokyo
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Una storia di coraggio, resilienza e determinazione
La XXXII edizione dei Giochi olimpici è ufficialmente iniziata. Questi giochi verranno ricordati come i più atipici di sempre per ragioni differenti. In primis, saranno celebrati con un anno di ritardo a causa della pandemia Covid-19 e inoltre si svolgeranno a porte chiuse. Gli atleti gareggeranno infatti in stadi privi di spettatori, avvolti da un silenzio assordante e in un’atmosfera ovattata senza alcun incoraggiamento.
Tuttavia, ci sarà almeno un buon motivo per ricordarseli. Degli oltre 11.000 atleti rappresentanti 206 nazioni, un team in particolare catturerà l’attenzione. Per la seconda volta nella storia dei Giochi Olimpici estivi, così come sono conosciuti in epoca moderna, parteciperà la squadra olimpica dei rifugiati, conosciuta anche con l’acronimo EOR, Équipe olympique des réfugiés. Inoltre, per la prima volta sarà presente anche la squadra paraolimpica dei rifugiati.
Gli atleti rifugiati gareggeranno accanto ai migliori atleti presenti nei cinque continenti. La prima volta fu nel 2016 in Brasile, ai Giochi olimpici di Rio de Janeiro. Nel 2015, la squadra olimpica dei rifugiati è stata istituita grazie alla collaborazione tra il Comitato Internazionale Olimpico e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), ed è supportata attraverso il programma Olympic Scholarships for Refugee Athletes.
Nella cerimonia inaugurale il team, non rappresentando nessuna nazione, ha sfilato in seconda posizione, subito dopo la Grecia che, come da tradizione, apre tutte le sfilate olimpiche, portando la torcia e una bandiera bianca con i cinque cerchi olimpici. Nel caso in cui atleti della squadra vincessero delle medaglie, verrà alzata la bandiera e intonato l’inno olimpico.
Rispetto al passato, la squadra oggi è quasi triplicata, passando da 10 a 29 atleti, di cui 11 donne e 18 uomini. I 29 atleti rappresentano idealmente più di 82 milioni di migranti e rifugiati nel mondo, costretti a fuggire dai propri Paesi di origine a causa di conflitti, guerre civili e persecuzioni. Provengono dalla Syria, dal Sud Sudan, dalla Repubblica Democratica del Congo, dall’Etiopia, dall’Eritrea, dal Venezuela, dall’Iran, ma anche dall’Afghanistan e dal Camerun.
La squadra è presente in 12 discipline,che sonotra le quali atletica leggera, badminton, boxe, canoa, ciclismo su strada, judo, karate, tiro, nuoto, taekwondo, sollevamento pesi e lotta libera. I criteri di selezione degli atleti si sono basati non solo sulle prestazioni sportive ma anche sulla conferma del loro status di rifugiato da parte dell’UNHCR. Sono stati anche presi in considerazione altri parametri quali la formazione personale nonché l’equilibrio tra discipline sportive, gender e religione.
Ogni olimpionico ha una storia, ma nessuna è forse commovente come quella degli atleti rifugiati. Prima ancora della passione per lo sport, ci sono altre caratteristiche che li uniscono, quali la resilienza, la determinazione, la perseveranza, il coraggio e la speranza di un futuro migliore.
Lo sport non ha barriere di alcun tipo e infatti questi giovani atleti hanno già vinto la gara più importante, quella della vita. Hanno affrontato sfide inimmaginabili e partecipare ai Giochi offrirà loro un’esperienza ineguagliabile nonché permetterà al mondo intero di conoscere le loro storie, ma anche di capire meglio i fenomeni migratori.