Le avventure di Miguel Littín, clandestino in Cile
Il da
“Abbiamo messo a Pinochet una coda d’asino lunga 7000 km”
Questo è il finale del libro Le avventure di Miguel Littín, clandestino in Cile. Non si svela mai la fine di un racconto, ma in questo caso il sacrilegio è perdonabile, perché è una storia vera e il finale era già noto, quando lo scrittore Gabriel García Márquez decise di raccontare in un libro/reportage l’incredibile avventura del regista Miguel Littín, esule cileno, che decise di rischiare tutto, la sua stessa vita, per tornare di nascosto nel suo Paese e girare un film di nascosto, a mo’ di beffa e di denuncia contro il dittatore Pinochet.
Miguel Littín era un regista molto vicino al governo socialista di Salvador Allende, e quando il generale Pinochet prese il potere e portò di fatto alla morte di Allende, Littín era certamente sulla lista nera del dittatore, e decise quindi di lasciare il suo Paese, abbandonando i genitori, gli amici, il suo lavoro, il posto in cui era nato e vissuto.
Nel 1985 decise che avrebbe girato un film di denuncia (che sarebbe stato Acta General de Chile) e organizzò di rientrare clandestinamente nel suo Paese (sigh), travestito da pubblicitario uruguaiano, supportato dalla rete segreta di resistenza e con l’aiuto di altri professionisti e amici del mondo del cinema di altri Paesi, tra i quali l’Italia, che sostennero costi e rischi per far arrivare, oltre che lui, più di una troupe cinematografica che avrebbero realizzato l’impresa sotto la sua direzione.
Márquez lasciò da parte il suo prepotente stile e il suo infinito immaginario per fare posto a un racconto secco, preciso, e insieme drammatico e struggente, che documentò tutta l’impresa del regista: la costruzione di un’identità fittizia, la complicata convivenza con la resistenza interna e la difficile organizzazione del lavoro di squadre cinematografiche, ognuna ignara delle altre per motivi di sicurezza; gli incontri fugaci con famiglia e amici, l’anima felice e lacerata nello stesso tempo.
È un libretto breve, l’ho sempre consigliato a molte persone, per chi andò in Cile negli anni dopo la caduta di Pinochet e per chi vuole andarci ancora, è la lettura necessaria da fare magari proprio in aereo, per capire lo strazio di un esule in fuga da una dittatura.
Ho pianto tanto, leggendo dello spaesamento di Littín nel guardarsi allo specchio senza riconoscersi sotto il trucco per non essere identificato; del momento toccante, quasi insostenibile, in cui va a trovare la vecchia madre ignara di tutto e che stenta a capire quello che sta succedendo; delle riprese effettuate nella casa del poeta Pablo Neruda da un operatore, italiano, che cade in un vero e proprio stato di trance e adrenalina lavorativa, mentre addirittura si immerge nell’oceano, cinepresa alla mano, per fare le riprese.
E ho tremato, leggendo del brivido lungo la schiena che ebbe Littín, quando finalmente entrò nel Palacio de La Moneda sempre con una troupe televisiva, e si ritrovò nello stesso corridoio in cui stava passando il generale golpista e assassino, Augusto Pinochet.
Ed è lì, con i suoi 7000 metri di pellicola girata di nascosto, che Littín vince moralmente sul responsabile di una delle peggiori dittature della seconda parte del Novecento: il generale golpista, antidemocratico, assassino Augusto Pinochet, “amico” della signora Margaret Thatcher, che dalla “civilissima” Gran Bretagna lo difese fino all’ultimo.