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Lo studioso Giorgio Giannini, nel suo libro Vittime dimenticate, scrive: «Anche gli omosessuali sono vittime dimenticate del regime nazista. Quanti siano stati condannati e internati nei lager non è noto, sia per la distruzione di parte degli archivi, sia perché molti di loro come altre categorie di perseguitati dai nazisti sono stati catturati dalla Gestapo e fatti sparire in base al decreto Nacht und Nebel (Notte e nebbia) emanato da Hitler il 7 dicembre 1941, con lo scopo di eliminare i “soggetti pericolosi per il Reich”, senza lasciare traccia».
Nel corso del regime nazista tedesco numerosi omosessuali furono internati in campi di concentramento insieme con Ebrei, Rom, Sinti e Testimoni di Geova. A distinguere gli omosessuali dagli altri prigionieri era, nel caso degli uomini, un triangolo rosa cucito sulla divisa all’altezza del petto e nel caso delle donne, un triangolo nero. Lo sterminio degli omosessuali nei campi di concentramento nazisti è stato indicato come Omocausto.
Negli anni che vanno tra il 1933 e il 1945 almeno 100.000 uomini furono arrestati come omosessuali, di cui circa la metà furono condannati; la maggior parte di questi ha trascorso il periodo di detenzione assegnato nelle prigioni regolari, ma tra i 5 e i 15.000 hanno finito con l’essere internati nei vari campi. Solo a partire dagli anni ‘80 del ‘900 si è cominciato a riconoscere anche questo episodio di storia inerente alla più ampia realtà della persecuzione nazista. Solo nel 2002 il governo tedesco ha chiesto ufficialmente scusa alla comunità LGBTIQ+.
Prima dell’avvento del Terzo Reich, Berlino veniva considerata una città liberale con molti locali gay, night club e spettacoli di cabaret. C’erano molti ritrovi dove turisti e residenti eterosessuali e omosessuali potevano praticare il crossdressing. Dall’inizio del secolo apparvero alcuni significativi movimenti di liberazione omosessuale, come il Wissenschaftlich-humanitäres Komitee (WHK), creato nel 1897, che faceva capo al medico ebreo Magnus Hirschfeld. Il 6 maggio 1933 la gioventù hitleriana della “Deutsche Studentenschaft” compie un attacco organizzato contro l’Institut für Sexualwissenschaft (l’Istituto per la ricerca sessuale istituito nel 1919 da Hirschfeld); pochi giorni dopo la biblioteca raccolta in 35 anni di lavoro e l’intero archivio vengono dati pubblicamente alle fiamme lungo le strade attorno all’Opernplatz. Vengono anche sequestrate lunghe liste di nomi e indirizzi di veri o presunti omosessuali che erano conservate al suo interno e 20.000 tra libri e riviste e più di 5.000 immagini sono andate irrimediabilmente distrutte.
Storicamente, da un punto di vista simbolico, il 30 giugno 1934, la “Notte dei lunghi coltelli” (in Germania definita Putsch-Rohm), costituì per la minoranza omosessuale tedesca quello che il pogrom della “Notte dei cristalli” avrebbe costituito nel 1938 per la comunità ebraica, sancendo in modo per così dire “ufficiale” l’inizio della campagna repressiva (che però aveva avuto inizio in modo “ufficioso” fin dal 1933). L’ideologia nazista reputò l’omosessualità incompatibile con i propri ideali considerando che le relazioni sessuali dovessero «[…] essere finalizzate al processo riproduttivo, essendo loro scopo la conservazione e il prosieguo dell’esistenza del Volk [il popolo], piuttosto che la realizzazione del piacere dell’individuo».
Ernst Röhm, un uomo che Hitler stesso percepì come una possibile minaccia alla propria supremazia, comandante della prima milizia nazista, le Sturmabteilung (conosciuta come SA), esibì in modo discreto la propria omosessualità fino al 1925. Inizialmente Hitler protesse Röhm dagli elementi estremisti del partito nazista che vedevano nella sua omosessualità una grave violazione delle norme profondamente omofobe del partito. Nel tempo però Hitler rivide questa posizione quando sentì minacciato il proprio potere da parte di Röhm. Il 30 giugno 1934, durante la “Notte dei lunghi coltelli”, Hitler ordinò l’epurazione di coloro che lo minacciavano. Tra questi figurava Röhm, e il suo omicidio diede a Hitler il pretesto per compiere ulteriori azioni contro le SA al fine di renderle innocue e docili al suo potere. Dopo aver consolidato la sua posizione di leader ed essere diventato Cancelliere, Hitler incluse la categoria degli omosessuali tra coloro che dovevano essere inviati nei campi di concentramento.
L’omosessualità di Röhm, che non aveva costituito un ostacolo alla sua carriera fino a quando egli era stato in sintonia con le gerarchie naziste, divenne così all’improvviso un utile pretesto per giustificarne l’eliminazione fisica e la necessità della “purga” del suo “corrotto” entourage. Alla fine di febbraio 1933 l’influenza in certo qual senso moderatrice di Röhm s’indebolisce, il partito può così dare il via in grande stile alla “pulizia” della capitale dai club di omosessuali e “omofili“; mette fuorilegge qualsivoglia pubblicazione inerente ad argomenti sessuali e vieta l’attività a tutti i gruppi e associazioni gay e lesbiche esistenti.
Oltre a ciò, l’episodio sancì la definitiva scomparsa delle illusioni nutrite dall’estrema destra del movimento di liberazione omosessuale di lingua tedesca, che contava esponenti come lo scrittore Hans Blüher o il medico Karl-Günther Heimsoth (l’inventore del termine “omofilia”), che simpatizzavano apertamente per il NSDAP. In queste cerchie l’alta posizione raggiunta da un omosessuale notorio come Ernst Röhm era citata quale esempio del fatto che il nazismo non era “in realtà” ostile agli omosessuali. La brutale liquidazione fisica di Röhm e di altre personalità omosessuali dei vertici delle Sturmabteilung (fra le quali lo stesso Heimsoth e Hans Erwin von Spreti-Weilbach), e ancora più la giustificazione dell’intervento armato come purga della cricca omosessuale annidata nel nazismo, costituì un brusco risveglio per queste persone. La vera motivazione della “Notte dei lunghi coltelli” non ebbe nulla a che vedere con l’omosessualità: l’eliminazione di Röhm fu resa necessaria dal fatto che egli era un uomo troppo potente, che aveva ai suoi comandi una temibile forza paramilitare, e che si attardava a concepire il nazismo come un movimento rivoluzionario, e perfino nazional-socialista, in un momento in cui esso era ormai nei fatti un regime ultraconservatore.
Il racconto di un omosessuale sopravvissuto all’Olocausto, l’alsaziano Pierre Seel, fornisce dettagli sulla vita durante il periodo nazista. Nel suo racconto egli narra la propria appartenenza alla comunità gay della città di Mulhouse. Quando i nazisti assunsero il potere il suo nome apparve in una lista di omosessuali locali che ricevettero l’ordine di presentarsi presso la stazione di polizia. Seel obbedì all’ordine per evitare ripercussioni ai propri famigliari. All’arrivo alla stazione di polizia egli, insieme con altri gay, venne picchiato; ad alcuni, che cercarono di resistere, vennero strappate le unghie dagli uomini delle SS. Altri ancora vennero sodomizzati con bastoni spezzati che causarono lesioni ed emorragie intestinali. Dopo il suo arresto, Seel venne inviato nel campo di concentramento di Vorbruck-Schirmeck e durante un appello mattutino il comandante del campo annunciò un’esecuzione pubblica. Un uomo venne portato fuori e Seel lo riconobbe: era il suo amante diciottenne di Mulhouse. Seel prosegue raccontando che le guardie del campo lo spogliarono degli abiti e che posero un secchio metallico sopra la sua testa; quindi, gli aizzarono contro i cani lupo addestrati che lo sbranarono fino a ucciderlo.
Nel 1936 Heinrich Himmler, comandante delle SS, creò l’Ufficio Centrale del Reich per la lotta all’omosessualità e all’aborto. Il decreto costitutivo di questo nuovo ufficio recitava: «[…] Le attività omosessuali di una non trascurabile parte della popolazione costituiscono una seria minaccia per la gioventù. Tutto ciò richiede l’adozione di più incisive misure contro queste malattie nazionali». Ovviamente i rapporti omosessuali, considerati “sterili” ed “egoistici”, vennero visti come un tradimento alle politiche demografiche di potenziamento del popolo non essendo i gay in grado di riprodursi e perpetuare così la razza ariana. Per la stessa ragione anche la masturbazione venne considerata dannosa al Terzo Reich, seppur trattata con minor severità.
Quegli omosessuali che non dissimulavano il proprio orientamento sessuale o che non erano disposti a contrarre matrimoni di convenienza incominciarono così a essere “raccolti” e inviati a tempo indeterminato – come metodo curativo – a duri campi di lavoro in campagna. Più di un milione di tedeschi sospettati di “attività omosessuali” sono stati presi di mira, di cui almeno 100.000 sono stati arrestati, interrogati e processati e non meno di 50.000 condannati alla carcerazione. Altre centinaia di uomini sono stati sottoposti a castrazione o sterilizzazione obbligatoria dietro ordine diretto dei tribunali.
Hitler supponeva che l’omosessualità fosse un “comportamento degenerato” che rappresentava una minaccia alla capacità demografica dello stato e ne che danneggiava il “carattere virile”. I gay vennero denunciati come “nemici dello stato” e accusati come “corruttori” della moralità pubblica che mettevano in pericolo il tasso di natalità della Germania.
La persecuzione nazista degli omosessuali venne portata a compimento principalmente attraverso l’inasprimento delle leggi omofobiche, il tristemente conosciuto Paragrafo 175, in nome del quale 100.000 gay vennero arrestati, 60.000 condannati a pene detentive e un numero sconosciuto internati in ospedali psichiatrici. Alcune di queste leggi contro l’omosessualità continuarono a essere presenti nell’ordinamento giuridico occidentale fino agli anni Sessanta e Settanta e per questo molti uomini e donne ebbero paura di rivelare il proprio orientamento sessuale fino a quando queste leggi non vennero abrogate. I gay soffrirono di un trattamento particolarmente crudele all’interno dei campi di concentramento. Questo può essere attribuito sia al duro atteggiamento delle SS di guardia nei confronti dei gay, come pure agli atteggiamenti omofobici ben radicati nella società nazista. Alcuni morirono a seguito di feroci bastonature, in parte effettuate da altri deportati.
I medici nazisti utilizzarono spesso i gay in esperimenti “scientifici” atti a scoprire il “gene dell’omosessualità” e poter così guarire i futuri bambini ariani che fossero stati omosessuali. Particolarmente crudeli le sperimentazioni del medico delle SS Carl Vaernet, che effettuò uno studio su di un preparato a base di ormoni di sua invenzione sugli internati omosessuali nel campo di Buchenwald: circa l’80% degli internati sottoposti alla “cura” a base di massicce dosi di testosterone non sopravvisse.
Le donne non vennero legalmente perseguitate dalla legge nazista contro gli omosessuali: il Paragrafo 175 discriminava infatti esclusivamente l’omosessualità maschile. Di là dalle leggi, la persecuzione e la repressione delle lesbiche va inquadrata nella più ampia concezione nazionalsocialista secondo cui il ruolo delle donne era limitato alla famiglia e alla cura dei figli, e per questo era considerato più semplice persuaderle o forzarle ad accettare un orientamento di tipo eterosessuale. Le lesbiche vennero viste come un pericolo ai valori dello stato e spesso marchiate dallo status di “asociali” (indossando in tal caso il triangolo nero anziché il triangolo rosa). La qualità di lesbica era considerata spesso un’aggravante rispetto appunto all’asocialità o ad altre imputazioni (ovvero all’essere ebree, ladre, prostitute, ecc.).
Come per tutte le persone considerate indesiderate, anche per gli omosessuali si aprirono i cancelli dei campi di concentramento. A migliaia (il numero preciso non si saprà probabilmente mai) vennero marchiati con un triangolo rosa, costretti a subire aberranti esperimenti medici, torture e umiliazioni mentre quelli più forti che riuscivano a resistere, venivano soppressi nelle camere a gas. Un dramma, quello degli omosessuali, che non terminò neppure con la fine della guerra. Considerati “colpevoli” anche da chi aveva liberato i campi di sterminio, molti continuarono a scontare in carcere le pene inflitte dal regime nazista, così, nel timore di ulteriori persecuzioni, per la vergogna imposta da secoli di repressione, chi visse in prima persona l’Omocausto si chiuse nel silenzio. Per decenni del dramma di migliaia di uomini e donne imprigionati, torturati e uccisi per il loro modo non eterosessuale di amare non si seppe più nulla.
Sin dal 1936 vennero indicati con un triangolo rosa (era un po’ più grande rispetto agli altri triangoli attribuiti ai diversi deportati, affinché fosse ben visibile anche da lontano), come il colore usato dalle ragazzine dell’epoca, che serviva per ridicolizzare la mascolinità. La posizione degli internati omosessuali fu fin dall’inizio tra le peggiori: in molti casi essi costituirono l’ultimo gradino della gerarchia del lager. Oggetto di violenze immotivate, trattati con particolare disprezzo dai nazisti e spesso anche dagli altri detenuti, i deportati omosessuali vennero destinati a lavori particolarmente duri, nella convinzione che in tal modo potessero riacquisire la loro mascolinità perduta.
Heinz Dörmer, ex deportato omosessuale, ha dichiarato: «Quanto più spesso e più forte (le SS) ci picchiavano, tanto più aumentava la considerazione per loro. (…) Eravamo considerati una razza infame ed essi potevano fare di noi tutto ciò che volevano. Se avessero ucciso qualcuno di noi sarebbero stati addirittura lodati e noi dovevamo stare a guardare”. Heinz Heger, un altro ex deportato omosessuale, ricorda: «Un omosessuale che entrava in ospedale aveva pochissime probabilità di uscirne vivo. All’ospedale i deportati col triangolo rosa servivano da cavie per le ricerche e gli esperimenti medici che il più delle volte finivano con la morte».
Così Rudolf Hoess, comandante per due anni del lager di Auschwitz e poi di quello di Sachsenhausen, descrive freddamente la condizione di vita dei prigionieri omosessuali: «A Sachsenhausen fin dal principio gli omosessuali vennero posti in un blocco isolato, e egualmente vennero isolati dagli altri prigionieri durante il lavoro. Erano adibiti ad una cava di argilla di una grande fabbrica di mattonelle; era un lavoro duro, e ciascuno doveva assolvere una determinata norma. (…) Estate o inverno, erano costretti a lavorare con qualunque tempo. L’effetto di quel lavoro, che avrebbe dovuto servire a riportarli alla “normalità”, era differente a seconda delle diverse categorie di omosessuali. (…) Quelli che intendevano realmente guarire (…) sopportavano anche i lavori più duri, gli altri decadevano fisicamente giorno per giorno».
Anche le lesbiche che non vollero o non poterono nascondersi dovettero pagare un caro prezzo. A partire dal 1936 molte furono rinchiuse in ospedali psichiatrici e costrette a seguire programmi di rieducazione. Per tante altre si aprirono le porte dei campi di sterminio. Non si sa con esattezza quante furono le lesbiche internate nei campi di concentramento e di sterminio. Come accadeva nella società, anche nella realtà dei lager la presenza delle lesbiche fu ignorata. Si ha notizia solo di cinque casi di lesbiche deportate esplicitamente per il loro orientamento sessuale. Ricerche storiche recenti hanno però appurato che in diversi campi vi era la presenza di internate lesbiche, in alcuni casi in proporzioni significative. Nella maggior parte dei casi il loro internamento avveniva con motivazioni ufficiali diverse dall’omosessualità: generalmente venivano classificate come “asociali”, come prigioniere politiche, come ebree, come comuniste, in tanti casi come prostitute. Per questo motivo molte furono costrette a lavorare nei bordelli dei lager. Non esistendo come categoria, le lesbiche non furono contraddistinte dal triangolo rosa, come accadeva per gli uomini. Alla fine della guerra questo sterminio invisibile venne totalmente rimosso dalla memoria collettiva: qualche ricerca ha iniziato a fare luce solo in anni recenti.
La fine della guerra e la liberazione dal nazismo e dal fascismo cambiarono ben poco la condizione degli omosessuali. Per molti, la liberazione dei campi di sterminio non significò affatto il ritorno alla libertà. Al contrario, accadde che molti triangoli rosa passarono dai campi di sterminio al carcere dove avrebbero finito di scontare la pena inflitta in base al Paragrafo 175: le autorità alleate ritennero che il castigo imposto fosse meritato e pertanto dovesse essere scontato fino in fondo. A nessun omosessuale, inoltre, venne concesso un indennizzo per quello che aveva subìto. La Repubblica Federale Tedesca non abolì il Paragrafo 175: si limitò ad alleggerirlo degli inasprimenti approvati dal regime nazista. Fu riformato nel 1969 e verrà abrogato definitivamente solo nel 1994. Nel frattempo, 50.000 omosessuali verranno condannati per il proprio orientamento sessuale.
Alla fine del febbraio 1933 il ministro dell’interno Hermann Göring emanò una serie di provvedimenti che abolivano il segreto epistolare, interdivano la stampa omosessuale, ordinavano la chiusura dei locali notturni. Le associazioni omosessuali vennero messe fuori legge. La posizione degli internati omosessuali fu fin dall’inizio tra le peggiori: in molti casi essi costituirono l’ultimo gradino della gerarchia del lager. Oggetto di violenze immotivate, trattati con particolare disprezzo dai nazisti e spesso anche dagli altri detenuti, i deportati omosessuali vennero destinati a lavori particolarmente duri, nella convinzione che in tal modo potessero essere indotti a cambiare inclinazione. Le condanne ai lavori forzati e gli internamenti nei gulag per omosessualità continueranno per 60 anni. Solo nel 1993 l’articolo 121 del Codice penale russo, che puniva le pratiche omosessuali, è stato abrogato. Sulla persecuzione e sullo sterminio di tanti omosessuali, nel dopoguerra calò il silenzio. Mentre molti dei perseguitati continuarono a scontare le proprie condanne, coloro che riconquistarono la libertà si chiusero nel silenzio.
Anche i libri di storia rimossero la memoria dell’Omocausto. Molte associazioni di ex deportati, inoltre, rifiutarono (e alcune rifiutano tuttora) di considerare tali gli ex triangoli rosa. Il cammino per il riconoscimento degli omosessuali come vittime della follia nazista fu lungo. Nel 2000 il governo tedesco ha chiesto solennemente scusa agli omosessuali per quanto subìto tra il 1933 e il 1969 a causa del Paragrafo 175. Quando i cancelli di Auschwitz e degli altri lager vennero abbattuti, molti dei superstiti marchiati con il triangolo rosa preferirono tacere il vero motivo del loro internamento, diventando vittime senza voce e senza giustizia.
Probabilmente non si saprà mai il numero esatto delle vittime omosessuali della follia nazista. In base ai dati più attendibili, il numero di persone arrestate in base al Paragrafo 175 tra il 1933 e il 1945 è di circa 100.000. Di queste, 60.000 scontarono la pena in carcere, e dai 10.000 ai 15.000 furono internate nei campi di concentramento. Degli internati, si calcola che il numero dei morti sia compreso tra i 6.000 e i 9.000. In base ai calcoli dello storico Rüdiger Lautmann, la mortalità dei triangoli rosa è una delle più alte tra le varie categorie di internati: il 60 per cento, la maggior parte dei quali durante il primo anno di internamento. Un calcolo esatto delle vittime omosessuali dei campi di concentramento nazisti è ostacolato dal fatto che molte persone vennero condannate in base al Paragrafo 175, pur non essendo omosessuali, per motivi politici; viceversa, molti omosessuali politicamente attivi vennero internati con imputazioni politiche. Gli archivi di molti lager, inoltre, vennero distrutti poco prima della liberazione. E gli alleati non tennero in nessuna considerazione la condizione degli omosessuali durante il nazismo, contribuendo così al silenzio e alla perdita della memoria di quelle stragi.
Dal 1980, alcune città in Europa e nel mondo hanno eretto monumenti e posto targhe per ricordare le migliaia di omosessuali che furono trucidati e perseguitati durante l’Olocausto. I principali monumenti si trovano a Berlino, Amsterdam e a San Francisco negli USA. In Germania nel 2002, il governo ha chiesto ufficialmente scusa alla comunità gay. In occasione dell’inaugurazione del monumento di Berlino, il sindaco Klaus Wowereit dichiarò: «Questo è sintomatico per una società […] che non abolì degli ingiusti verdetti, ma che almeno parzialmente continuò ad applicarli; una società che non riconobbe un gruppo di persone come vittime, solamente perché queste scelsero un altro stile di vita».
Il ricordo della Shoah non riguarda solo gli ebrei ma l’intera umanità. Ricordare e commemorare le vittime della Shoah non significa affatto trascurare altri genocidi, né tantomeno stabilire inutili “priorità” tra stermini e dolori di un popolo piuttosto che di altri popoli. Per maggiori approfondimenti su questo tema si invita il lettore a fare riferimento alla cospicua e numerosa letteratura di riferimento.
Carlo Scovino
BIBLIOGRAFIA Scovino C., Fredy Hirsch. Un educatore ad Auschwitz. Omocausto: una storia dimenticata, La Meridiana, Molfetta (BA), 2023 (il testo è stato patrocinato dalla Sezione Italiana di Amnesty International)