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Recover better – Stand Up for Human Rights è il tema scelto dalle Nazioni Unite per celebrare la Giornata Internazionale dei Diritti Umani, il 10 dicembre 2020. Ogni anno viene adottato dall’Onu un tema particolare allo scopo di trasmettere con efficacia il significato della ricorrenza. Quello scelto quest’anno si riferisce alla pandemia Covid-19 ed esprime la necessità di “ricostruire meglio”, garantendo una posizione centrale, negli sforzi di ripresa, ai diritti umani, così da assumerli come linee guida per affrontare i problemi emersi con la pandemia, nell’obiettivo di contrastare le disuguaglianze radicate, di sistema, quelle fra le generazioni, l’esclusione e la discriminazione.
La giornata del 10 dicembre rappresenta un’opportunità per riaffermare il valore dei diritti umani nel mondo che vogliamo, il bisogno di solidarietà globale, nonché la nostra interconnessione e la nostra umanità condivisa. Dovrebbe essere ormai evidente che nessuno può pensare di poter salvaguardare solo se stesso, che ognuno dei nostri beni più preziosi – la salute, la sicurezza, la vita familiare – è legato a quello degli altri, riconoscendo così il valore dello “spirito di fratellanza” affermato dal primo articolo della Dichiarazione Universale del 1948.
Se il virus non discrimina e non ci permette di ritagliare la nostra situazione individuale, qualsiasi essa sia, privilegiata o meno o niente affatto, dal contesto della salute del pianeta, gli effetti dell’epidemia invece non sono eguali per tutti. Il fondamentale diritto alla salute è compromesso in vaste aree della popolazione, per anziani, portatori di patologie pregresse, negli assembramenti di necessità nelle carceri, nei centri per il rimpatrio oppure nelle situazioni di isolamento forzato di coppie conviventi e nuclei familiari. Il virus è un elemento amplificatore di discriminazioni presenti anche prima.
Mi riferisco, senza la pretesa di provare a riassumerlo qui, al quadro straordinariamente ampio dato da Paolo Pobbiati lo scorso 22 aprile, nella rassegna in streaming per l’Associazione per i Diritti Umani, con la relazione dal titolo Il virus non discrimina, i governi sì. Non dobbiamo abbassare la guardia sulle violazioni dei diritti attuate dagli Stati in nome delle misure necessarie alla salute pubblica. Coloro che sono più fragili nella situazione attuale devono aver accesso a reti di supporto; se li lasciamo indietro, rendiamo vani gli sforzi e i sacrifici che ognuno di noi deve ormai affrontare ogni giorno. Noi ci tuteliamo meglio se anche chi sta intorno a noi è tutelato.
Concetti come questi vengono trasmessi dalla campagna di Amnesty Italia COVID-19 E DIRITTI UMANI, rivolta a sollecitare il governo italiano ad affrontare la pandemia senza discriminazioni e ad adottare provvedimenti coerenti con gli obblighi in materia di diritti umani. Pobbiati mette anche in luce in senso positivo le misure che alcuni governi sono stati costretti ad adottare in conseguenza dell’impatto del contagio, ad esempio per il sovraffollamento nelle carceri o, in Spagna e in Argentina, a favore delle donne a rischio di violenza in famiglia.
Come sappiamo, la data del 10 dicembre è stata stabilita per ricordare la proclamazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (UDHR), da parte della Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riunita a Parigi nel 1948. Nella giornata del 10 dicembre inoltre vengono assegnati i due più importanti riconoscimenti in materia di diritti umani, ovvero il quinquennale premio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, assegnato a New York, e il premio Nobel per la pace a Oslo. Molte organizzazioni internazionali, non governative, civili e umanitarie in tutto il pianeta scelgono questa giornata per eventi che si aggiungono a un programma dell’Onu, disponibile sul sito, di conferenze di alto profilo politico ed eventi culturali come mostre e concerti, riguardanti l’argomento dei diritti umani.
“Dove cominciano i diritti umani universali?”, si era domandata Eleanor Roosevelt nel 1958, celebrando a distanza di 10 anni l’anniversario della Dichiarazione. “In piccoli posti vicino a casa, così vicini e così piccoli che essi non possono essere visti su alcuna mappa del mondo. Ma essi sono il mondo di ogni singola persona; il quartiere dove si vive, la scuola frequentata, la fabbrica, fattoria o ufficio dove si lavora. Questi sono i luoghi in cui ogni uomo, donna o bambino cerca uguale giustizia, uguali opportunità, eguale dignità senza discriminazioni. Se questi diritti non hanno significato lì, hanno poco significato da altre parti. In assenza di interventi organizzati di cittadini per sostenere chi è vicino alla loro casa, guarderemo invano al progresso nel mondo più vasto. Quindi noi crediamo che il destino dei diritti umani sia nelle mani di tutti i cittadini in tutte le nostre comunità” (In Your Hands, 27 marzo 1958).
Il testo è significativo per i sostenitori di Amnesty International, poiché Amnesty si rivolge proprio alle persone comuni, invitandole a trovare uno sbocco attivo al senso di impotenza provato dal singolo nei confronti delle ingiustizie nel mondo delle quali, dai mezzi di comunicazione delle società democratiche, viene informato ma inevitabilmente percepisce se stesso come soggetto passivo. Divenire parte di una comunità di difensori dei diritti umani permette di far sentire la propria voce e di dar voce a chi non può averla. Gli Stati d’altra parte, per il loro ruolo, sono i primi garanti dei diritti umani ma sono anche quelli che più di frequente li violano.
Richiamare con la forza di una “azione comune” pacifica i governi al rispetto dei diritti sanciti nella UDHR era l’obiettivo di Peter Benenson, affermato nell’articolo “The Forgotten Prisoners” pubblicato sul The Observer il 28 maggio 1961. Da quest’uomo schivo da ogni riconoscimento pubblico è stata accesa la prima candela di Amnesty International nella chiesa di San Martin in the Fields a Londra il 10 dicembre 1961.
L’obiettivo di un mondo dove a tutti vengano riconosciuti i diritti umani sarebbe un’utopia ma, come dice Antonio Marchesi, “per un’organizzazione come Amnesty, l’utopia è un progetto”. “Facciamo piccoli passi e ci avviciniamo a una meta. Siamo pragmatici. Se facciamo la campagna per l’abolizione della pena capitale, magari otteniamo che meno reati siano puniti con la morte, o che i processi riducano il numero di condanne, o che certe categorie siano escluse da queste sentenze: sono piccoli passi” (A. Marchesi, intervista a La Repubblica, 10 dicembre 2018).
La Dichiarazione uscì dal lavoro della Commissione presieduta da Eleanor Roosevelt quando ancora nelle città dell’Europa e dell’Asia si viveva fra le macerie causate dalla Seconda guerra mondiale, si era ancora in pieno colonialismo, si diffondeva, nei primi tempi a stento, la conoscenza dell’orrore dei crimini e dei campi di sterminio nazisti. A favore votarono 48 membri delle Nazioni Unite su 58. Due paesi, Yemen e Honduras, non parteciparono al momento del voto. Nessuno si dichiarò contrario ma vi furono 8 stati astenuti. Fra questi il Sudafrica, evidentemente per proteggere il sistema dell’apartheid, l’U.R.S.S., con motivazioni emerse già nel corso del dibattito, nella sessione del gennaio 1947, per cui il sistema sovietico prevedeva le libertà di movimento e di opinione caratteristiche dei governi liberal-democratici solo in conformità agli interessi dei lavoratori e alla stabilità del sistema. Scarsamente rappresentato nell’assemblea fu il mondo arabo-musulmano.
Solo una parte dei Paesi arabo-musulmani si oppose successivamente alla Dichiarazione, mentre oggi non mancano intellettuali che affermano l’esigenza di un nuovo islam aperto al dialogo con le altre culture. Tuttavia tutti gli stati dell’OCI e del Consiglio islamico d’Europa hanno sviluppato dichiarazioni dei diritti umani nel mondo islamico, anche con posizioni distanti dalla cultura vigente a livello internazionale. Comunque diversità di storie nazionali, di sistemi filosofici ed economici ostacolarono nel 1948 il tentativo di trovare un comune denominatore tale da garantire l’unanimità di adesione degli Stati. Fin dall’inizio la Dichiarazione non fu immune da critiche. Si poté definirla eurocentrica oppure astratta, mera dichiarazione di principio, affermazione di un “postulato etico” (V. Ferrone), separato dalla realtà.
Si può rispondere con Antonio Papisca che la Dichiarazione Universale non è rimasta sola, vox clamantis in deserto, ma è alle origini di un nuovo diritto internazionale ed è divenuta, a parere di molti giuristi, vincolante come parte del diritto internazionale consuetudinario, poiché continuamente citata, a partire dalla sua proclamazione, in tutti i Paesi. Essa è alla base di numerose convenzioni giuridiche in materia di discriminazione razziale, tortura, discriminazione nei confronti della donna, diritti dei bambini, diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, diritti delle persone con disabilità e altre convenzioni internazionali, vale a dire patti fra Stati che determinano norme di condotta giuridicamente vincolanti. Ha costituito l’orizzonte ideale della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, confluita nel 2004 nella Costituzione europea.
La Dichiarazione contiene il codice genetico di una rivoluzione giuridica e culturale ancora in atto. In essa si enunciano principi innovativi per il sistema delle relazioni internazionali, principi basati sulla centralità della persona umana, che viene posta per la prima volta al di sopra degli Stati-nazione. L’individuo è visto come autonomo, mentre precedentemente la soggettività individuale era sempre vincolata allo Stato.
Nella realtà internazionale dei secoli scorsi (consideriamo per maggior precisione il periodo compreso fra la pace di Vestfalia del 1648 e la fine dell’Ottocento), i popoli e gli individui non avevano alcun peso nell’ambito della comunità internazionale, dominata dagli Stati sovrani, “unici veri interlocutori sulla scena del mondo” (A. Cassese). I popoli non erano considerati altro che oggetto del dominio dei vari sovrani, passando spesso da un sovrano all’altro, a seconda delle fortune, delle conquiste e dei successi dei vari regnanti.
Ogni giorno i media riferiscono di discriminazioni, massacri, torture, sparizioni violente di oppositori politici. Abominio e sopraffazione, che la storia continua a presentarci, tuttavia hanno ora trovato un nuovo “criterio di classificazione”: violazione di questo o quel diritto umano. Se qualcuno può non essere d’accordo con Antonio Cassese che si tratti di un “indubbio progresso”, credo però sia da riconoscere come un indubbio progresso che il linguaggio dei diritti umani si sia imposto il tutto il mondo. Se noi siamo la lingua che parliamo, nell’uso di questo linguaggio è già contenuta una difesa dalla violenza
Fra i riconoscimenti più commoventi per i difensori dei diritti umani credo vi sia ragione di ricordare le parole rivolte da Luis Sepúlveda a Ute Klemmer, l’attivista di Amnesty International che aveva seguito l’azione per la liberazione del grande e amato scrittore, condannato a una durissima prigionia nelle carceri di Pinochet: “Grazie. Grazie per la mia libertà e per la libertà di tanti. Grazie per quella forza, per quella coerenza, per quella determinazione nella lotta, per quella generosità che esalta l’essere umano”.
Eugenia Marcantoni