Il 4 marzo 2021 Amnesty International lancia un allarme: “L’esercito spara con volontà di uccidere per domare le proteste”. Ad oggi, 19 marzo, i morti sono quasi 250, colpiti uno a uno da militari e cecchini. Cosa è successo? L’1 febbraio 2021 un colpo di stato ha impedito brutalmente l’avvio di una nuova assemblea parlamentare eletta l’8 novembre 2020 accusando di frode Aung San Suu Kyi e il suo partito, “reo” di aver raccolto l’83% dei suffragi.
La reazione popolare è immediata. Centinaia di migliaia, fra medici e personale sanitario, funzionari statali, studenti, impiegati, operai e contadini lasciano il lavoro e scendono in piazza, dove giorno dopo giorno manifestano per la democrazia e per la scarcerazione di Aung San Suu Kyi, dei suoi deputati e dei più di 2000 nuovi prigionieri di coscienza. Forte della schiacciante vittoria elettorale della Lega nazionale per la democrazia, il nuovo parlamento non avrebbe più garantito ai militari il 25% dei seggi e i ministeri della Difesa, dell’Interno e delle Frontiere, privilegi che in passato erano loro assegnati senza il consenso popolare.
Il generale in capo delle forze armate Min Aung Hlaing, prossimo alla pensione e a probabili processi per crimini di guerra e genocidio, autore dello sterminio dei rohingya e accumulatore di fortune miliardarie nei paradisi fiscali, ha deciso di evitare il proprio declino con la forza. E nelle intenzioni anche con astuzia. Eliminati la “lady” e i leader della Lega nazionale per la democrazia con accuse fittizie, promette nuove elezioni al termine di un anno di stato di emergenza, finge una volontà d’intesa con i gruppi etnici, offre ministeri ai partiti di minoranza e annuncia il ritorno dei profughi rohingya addossando le colpe dell’esodo ad Aung San Suu Kyi.
Per tutto febbraio solo arresti, idranti e lacrimogeni. Poi, con il rilascio di 23000 detenuti comuni e l’arrivo delle truppe speciali, iniziano gli spari ad altezza d’uomo, le retate e i vandalismi notturni. Già nel 1988 i militari massacrarono migliaia di studenti, ma ora c’è una novità. Ci sono i video ripresi dai telefonini e i social che li diffondono nonostante l’oscuramento a singhiozzo della rete e il bavaglio alla stampa libera. La lotta del Movimento di disobbedienza civile (CDM) è una lotta senza armi, per scelta, che punta all’intervento dell’Onu.
Il 9 marzo l’Onu ha condannato le violenze contro i manifestanti, ma l’intervento è stato bloccato sul nascere da Russia, Cina, India e Vietnam. Inaspettatamente, verdetti di decisa condanna sono invece arrivati da Singapore, Malesia e Indonesia. Usa e Unione Europea hanno rafforzato le sanzioni. In Italia è stato ribadito l’embargo delle armi, in vigore dal 1999… Nelle strade di Yangon, però, sono stati trovati proiettili della livornese Cheddite. Perché?