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La crisi di Covid-19 ha messo a dura prova alcuni dei principi fondamentali dell’Unione europea. Durante un’intervista su Facebook Live, la presidente della Sottocommissione per i diritti dell’uomo Maria Arena ha discusso della tutela dei diritti umani nella risposta dell’Ue alla pandemia, e ha ricordato che l’Ue ha svolto un ruolo importante durante la crisi permettendo la libera circolazione di beni e servizi, incluso il rifornimento di medicinali e attrezzature sanitarie ai paesi che ne avevano maggior bisogno. Adesso, “è molto importante ripristinare la libertà di movimento per i cittadini”, ha detto, sottolineando che l’Europa non è Europa se non c’è libera circolazione. Tuttavia le misure per prevenire la diffusione del virus rimangono in atto e tra queste c’è anche l’uso delle applicazioni di tracciamento dei contatti, che possono svolgere un ruolo chiave per la riapertura dei confini, ma che sollevano preoccupazioni per la tutela della vita privata. “È importante lavorare con la tecnologia, incluso il tracciamento di persone per evitare contagi, ma dobbiamo rispettare i principi (…) L’applicazione deve rispettare le norme dell’Ue sulla protezione dei dati”, ha dichiarato la presidente. Sempre durante l’intervista ha ricordato che “adesso dobbiamo tornare alla normalità e riportare i diritti umani al centro della discussione”. La solidarietà è la chiave per affrontare la crisi, ha concluso la presidente Arena, “l’Europa è come una nave: non puoi salvare la prua senza salvare la poppa. Bisogna salvare tutti”.
“La minaccia è il virus, non le persone”, ha detto qualche giorno fa il Segretario generale dell’Onu, António Guterres, che ha ritenuto opportuno elaborare un report relativo all’impatto del Covid-19 sui diritti umani. La pandemia si sta dimostrando una “opportunità” per quei leader che usano la paura del contagio, la quarantena e il fatto che tutta l’attenzione del mondo sia puntata sul Covid-19 per liberarsi di dissidenti e attivisti o di imporre il pugno di ferro nella gestione dello Stato. Cina, India e Turchia (dove Erdogan riesce a portare avanti la repressione nei confronti dei Curdi persino in questo periodo, e a cancellare di fatto qualunque voce di protesta interna, anche quella di “semplici”, ma critici, musicisti) sono tra quelli su cui pendono le maggiori accuse di violazioni.
Ma anche Arabia Saudita, Iran, Russia e paesi europei come l’Ungheria sono da mesi ormai sotto osservazione delle organizzazioni dei diritti umani e della stampa. Sono molte le analisi che mostrano come il governo di Pechino stia usando la pandemia per imporsi nella politica di Hong Kong, atteggiamento che si è già risolto in arresti di massa di dissidenti mentre la polizia del paese ha arrestato 15 noti attivisti legati alle proteste del giugno scorso.
Human Rights Watch ha denunciato le difficoltà della stampa di operare in certe condizioni: “In Thailandia, Cambogia, Venezuela, Bangladesh, Turchia, i governi stanno arrestando giornalisti, attivisti dell’opposizione, operatori sanitari e chiunque osi criticare la risposta ufficiale al coronavirus”. Mentre paesi come Giordania, Oman, Yemen ed Emirati Arabi Uniti hanno vietato la stampa di giornali, sostenendo che potrebbero trasmettere il virus. Senza contare il caso di India, Myanmar e Bangladesh, dove è quasi impossibile ricevere notizie sull’andamento della pandemia e su come comportarsi a causa del quasi totale shutdown di Internet da parte dei governi.
Ci sono luoghi dove la pandemia amplifica e nello stesso tempo copre tragedie già in corso. In Libia, per esempio, dove 700.000 rifugiati e migranti sono già sotto il giogo dei loro torturatori e dei trafficanti, dove non c’è accesso all’informazione e non esiste certezza di lasciare l’inferno. Un paese da anni piegato da un conflitto che non trova soluzione e senza le strutture sanitarie necessarie per affrontare l’emergenza. C’è poi chi sta di fatto militarizzando il Covid-19. In molti paesi africani sono stati segnalati e denunciati casi di abusi da parte delle forze dell’ordine, che spesso non hanno esitato a sparare sulle persone accusate di violare la quarantena. Attacchi sui civili sono stati registrati in Kenya, Uganda, Burundi, Togo, Chad, Etiopia, Nigeria, Sudafrica. Qui, inoltre, il presidente Ramaphosa ha ordinato il dispiegamento di 73.000 soldati al fine, ha detto, di garantire il rispetto del lockdown. E in Egitto lo stato di emergenza ha dato alla polizia ampi poteri di arresto e detenzione di figure “scomode” al regime di Abdel Fattah al-Sisi che ha esteso la misura per altri tre mesi anche adducendo come pretesto l’insorgenza terroristica.
La normativa sui diritti umani permette agli Stati – in situazioni emergenziali – di adottare misure per limitare alcune libertà individuali e collettive: i provvedimenti nazionali in nessun caso però possono avere carattere discriminatorio. Il loro contenuto deve essere chiaro, la durata specifica e non devono comportare la soppressione della libertà di stampa e/o di espressione. La migliore risposta alle emergenze deve essere dunque proporzionale alla minaccia in corso. Solo così può essere garantito il pieno rispetto dei diritti fondamentali e del principio di legalità. Così come, per esempio, stabiliscono i Principi di Siracusa, adottati dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite e dal Comitato per i diritti umani nel 1984.
È chiaro che, in un momento come quello attuale, simili restrizioni sono giustificate dall’esigenza di garantire altri diritti fondamentali, come la salute e la vita. Il rischio però è che questo stato di emergenza possa divenire, soprattutto nei regimi autocratici (ma non solo), una condizione permanente. In altre parole, il pericolo è che l’attuale crisi venga utilizzata come pretesto per limitare in maniera definitiva le libertà fondamentali e gli spazi di agibilità civica. Il rischio è quanto mai concreto, anche in Europa (l’esempio dell’Ungheria è sotto gli occhi di tutti). Non a caso già nelle scorse settimane Michelle Bachelet, Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani, aveva invitato gli Stati a garantirne il rispetto anche in questa fase di emergenza.
Ecco perché la “In difesa di” chiede al Comitato interministeriale per i diritti umani (Cidu) non solo che venga notificato lo stato di emergenza alle Nazioni Unite, ma anche che si valutino gli impatti che le attuali misure restrittive stanno avendo e avranno sulle libertà fondamentali. Non dimentichiamoci, infine, che l’Italia fa parte del Consiglio Onu per i diritti umani. Dovrebbe quindi essere in prima linea per assicurarne il rispetto anche in questo periodo, in modo che non vengano impunemente violati in nome dell’emergenza.
Carlo Scovino
Leggi La pandemia SARS-COV2. Tra diritti, salute e sicurezza – parte 1
Bibliografia
Amnesty International, trimestrale del 4/10/2020
Organizzazione mondiale della sanità, www.salute.gov.it
S. Millesi, Non c’è salute senza salute mentale, www.vita.it, 4/2020
Yao H, Chen JH, Xu YF., Patients with mental health disorders in the COVID-19 epidemic, Lancet Psychiatry 2020.