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Nello Stato del Rakhine, nel Nord-Ovest del Myanmar (conosciuto anche come Birmania), le sistematiche gravi violazioni dei diritti umani e i crimini perpetrati a danno dei Rohingya, minoranza etnica musulmana, affondano le loro radici in anni di discriminazioni e persecuzioni. Ai Rohingya è contestato, oltre al fatto di essere musulmani in uno Stato dove oltre il 90% della popolazione professa la religione buddista, anche lo status di bengalesi immigrati in maniera irregolare. Il Myanmar ha altresì negato loro il riconoscimento nella lista ufficiale delle minoranze etniche e il conseguente diritto di cittadinanza. Di contro, sono stati rifiutati anche dai correligionari musulmani del Bangladesh, che non li hanno riconosciuti ufficialmente come propri cittadini. I Rohingya sono così di fatto apolidi e per questo sono incapaci di esercitare i loro diritti civili e politici, essendo privi di ogni forma di tutela all’interno dell’ordinamento nazionale.
Dal settembre 2017, l’escalation delle violenze sempre più frequenti, perpetrate dalle forze armate nazionali e fomentate anche dall’odio dei monaci nazionalisti, ha indotto i Rohingya a fuggire alla ricerca di protezione nei Paesi confinanti con il Myanmar. Stime ufficiali redatte dalle Nazioni Unite, riportano che negli ultimi anni, circa un milione di Rohingya abbia raggiunto il campo profughi di Cox’s Bazar, nel Sud del Bangladesh, considerato uno dei più grandi al mondo.
I profughi sono distribuiti in 34 settori densamente popolati, e vivono in alloggi di fortuna costruiti con pali di bambù e teloni di plastica. La vita nel campo è ben lungi dal potersi definire dignitosa. Le condizioni igienico-sanitarie sono precarie, così come risulta estremamente difficoltoso l’accesso all’acqua, al cibo, alle cure mediche e all’istruzione di base. Il Bangladesh è inoltre soggetto a frequenti piogge monsoniche che, dando origine a frane e inondazioni improvvise, sono in grado di trascinare con sé e distruggere molte delle baracche.
In questo contesto, il rischio di epidemie è elevato, infatti la pandemia di Covid-19 ha aggravato una situazione già particolarmente compromessa. L’adozione di comportamenti igienici adeguati, cosi come il distanziamento sociale, gli ipotetici isolamenti e le quarantene sono da considerarsi una chimera. Appare infatti impossibile adottare le misure precauzionali in un campo profughi sovraffollato.
Nel settembre del 2019, il governo bengalese ha inoltre ordinato l’interruzione dei servizi di telefonia mobile e il blocco delle vendite di sim card nel campo. Questo diniego all’accesso alle notizie è un’ulteriore violazione dei diritti umani di questo popolo già isolato e oppresso. Sono stati infatti interrotti tutti i servizi di protezione, compresi quelli di sostegno a distanza alle vittime di violenze di genere e domestiche perpetrate all’interno del campo.
La vita nel campo di Cox’s Bazar non deve considerarsi una “nuova normalità”, in quanto non è altro che una triste parentesi nella storia di questo popolo. Un campo profughi è per definizione concepito come un insediamento temporaneo. In tutti questi anni si è cercato di trovare soluzioni differenti, tutte fallimentari. Il governo del Myanmar non è riuscito a garantire le condizioni indispensabili per un rimpatrio volontario, sicuro e dignitoso.
Da pochi giorni, le autorità bengalesi hanno iniziato le operazioni di trasferimento di qualche migliaio di Rohingya sull’isola di limo di Bhasan Char, letteralmente “isola fluttuante”, situata nel Golfo del Bengala. In questo luogo, al posto delle baracche fatiscenti, ad accoglierli troveranno una struttura che potrà ospitare circa 100mila persone ma che assomiglia in tutto e per tutto a un carcere. Una volta entrati troveranno cancelli automatici, telecamere di sorveglianza sempre operative e qualche centinaio di poliziotti addetti alla sorveglianza. L’isola dista circa 30 km dalla terraferma, per cui una volta arrivati sull’isola sarà molto difficile che i profughi siano liberi di muoversi liberamente.
È essenziale che i Rohingya abbiano un ruolo da protagonisti nelle decisioni riguardanti il loro futuro. La giustizia internazionale sarà in grado, forse, di far luce sui crimini perpetrati nei loro confronti. Tuttavia è importante che ottengano il riconoscimento della loro identità, fino ad oggi negata, come minoranza avente una propria religione, una lingua, delle tradizioni e, non meno importante, il diritto a occupare un territorio.
Francesca Braga